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Posts Tagged ‘Nathan Fake’

Orsù dunque, proseguiamo.

Fascia uno

Animal Collective-Merryweather post pavillon (Domino): questo album è stato accolto fin dal momento della sua uscita, o meglio della sua prematura diffusione su Internetto, che di questi tempi è quando comincia per davvero la vita pubblica di un disco, da un coro di lodi incondizionato ed assordante. Credo si intuisca, anche solo dalla semplice constatazione che questa è una playlist, che non è mia intenzione fare il bastiancontrario. Gli ingredienti sono quelli noti, i Beach Boys, le sperimentazioni kraute dei ’70, la techno (e più in generale l’elettronica tutta) dei ’90, fusi in una forma pop perfettissima ma non smaccatamente easy, anche se non mancano i ritornelli di immediata memorizzabilità. Su tutto, un senso di euforia chimica che rimanda ad estasi psichedeliche d’altri tempi. Che piaccia o no, per la pura forza delle loro intuizioni musicali e per l’influenza che stanno esercitando su tutto il carrozzone indie, saranno un termine di paragone negli anni a venire.

Camillas, I-Le politiche del prato (Wallace/Tafuzzy/Marinaio Gayo/Dischi di Plastica): disco bello e divertente come i giuochi di infanzia nei pomeriggi di soletutto all’insegna di una vivace attitudine, guarda un po’, ludica, che sarebbe sbrigativo ricondurre ai canoni del rock demenziale. C’è dentro di tutto, perché in fondo le regole è bello riscriverle in corso d’opera, da commoventi (…) cori alpini a filastrocche nonsense con pimpante chitarra similpunk, passando per ballate acustiche un po’ scoglionate e un po’ no, pezzi a cappella e scampoli di cabaret: la porzione più consistente è però  occupata da brani di inebriante freschezza che coi loro quattro quarti al limite del ballabile fanno muovere il piedino senza requie, come l’iniziale Discomacchina,  strumentale mutante a base di sintetizzatori ipnotici e chitarre imbizzarrite o la seguente La canzone del pane, sorta di rilettura carnevalesca dei Notwist epoca Neon golden. Autenticamente contagiosi: speriamo di risentirli presto. 

ES-Kesämaan lapset (Fonal): l’assoluta impenetrabilità del titolo e dei testi, interamente in finlandese, non favorisce l’identificazione di una prima chiave di lettura per meglio inquadrare la musica dell’album: ad ogni buon conto, Kesämaan lapset verrebbe a significare in italiano “Figli della terra dell’estate”. Senza lanciarmi in una non adeguatamente verificabile disquisizione psicogeografica sull’impatto psicologico che le inesauribili ore di luce dell’estate artica possono avere sull’inconscio collettivo di un popolo tutto, mi limito a riconoscere che questa piccola informazione aiuta parecchio a contestualizzare l’ascolto dell’album: i cinque brani e soprattutto la title-track, che coi suoi ventuno e passa minuti occupa da sola metà della durata complessiva, esibiscono infatti un suono luminoso, etereo e rarefatto, che coniuga in una sintesi altamente evocativa folk, ambient e minimalismo. Predominano dunque i toni elegiaci che trovano la loro espressione più alta nelle celestiali volute ambient che chiudono la già citata title-track, ma non mancano variazioni di tono, come nel caso della breve seconda traccia, dove caotici ghirigori di tastiere minimaliste, di gusto paradossalmente infantile,  fanno da sfondo all’alato salmodiare delle voci. Stupenda poi la traccia conclusiva, dove ulteriori ghirigori e poche sapienti note di piano decorano un drone insistente, mentre le voci si lanciano in un coro spontaneo  in cui predominano i falsetti. Poi tutto finisce, quasi all’improvviso, ma l’autunno continua ad apparire lontano.

Infinite Body-CMBCMEINAPTD LP (Teardrops): album ieratico, lancinante e ostico come l’incomprensibile titolo che porta, questo CMBecc. ecc., si situa all’incrocio fra harsh noise, ambient e drone, coniando una sintesi affascinante e personalissima che nulla concede a un ascolto distratto, ma che sa arrivare in profondità con una sottigliezza insolita per questi ambiti, spesso popolati da massimalisti sonori della domenica: merito forse degli impercettibili ma continui slittamenti che percorrono come un tremito le iterazioni ipnotiche da cui prendono le mosse le composizioni, conferendo all’insieme sfumature cangianti e una propizia varietà di fondo. Persistente la sensazione, che a questi livelli di intensità avevo sperimentato solo col classico “Times of Grace” dei Neurosis, di trovarsi al cospetto di un mistero ineffabile che può sopravvivere ad infiniti ascolti senza essere profanato.   

Lightning Bolt-Earthly delights (Load): se posso dire la verità, temevo che ce li fossimo giocati. Il silenzio dopo Hypermagic Mountain, anno di grazia 2005, si stava facendo pesante, ancor prima che lungo, e mi aveva fatto sospettare una crisi creativa che neanche i concerti, sempre assurdi, deflagranti e perfetti, alla lunga avrebbero potuto occultare. Gridiamolo pure forte e chiaro, tutte cazzate da fan apprensivo: Earthly delights, benché non presenti nessuna evidente svolta stilistica è un album che non mostra affatto la corda e che anzi cresce con gli ascolti, inserendosi perfettamente nel solco di uno stile tanto unico quanto consolidato, ma evitando in scioltezza il pericolo del manierismo. Chi conosce già il duo di Providence sa già cosa aspettarsi, un noise rock per sezione ritmica che si abbevera senza pudore alle fonti dell’hard rock più virtuoso e che mentre accumula decibel su decibel riesce nella considerabile impresa di suonare epico e cartoonistico al tempo stesso. Ma qua e là ci sono anche belle variazioni sul tema, come ad esempio l’incedere quasi stoner della prima parte di Colossus, il feeling country di Funny farm, col suo pseudo banjo che si avvita in acrobazie ubriacanti e l’intermezzo, insieme sognante e burlesco di Rain on lake I’m swimming in. Ma a fugare eventuali dubbi residui c’è soprattutto la sigla di chiusura Transmissionary, mastodontica tensostruttura sonora costruita a partire da una di quelle scale arabeggianti che a volte hanno fatto capolino nella loro produzione, che si dipana circolare e inarrestabile per dodici minuti, che immagino infinitamente dilatabili e jammabili in sede live. Bentornati.  

Mountains-Choral (Thrill Jockey): la musica di Choral vive soprattutto dell’incessante dialettica tra cristalline melodie di chitarra acustica (che potremmo idealmente definire l’elemento solido del Mountains sound) e fatate rarefazioni ambient (la parte gassosa). L’episodio più nitidamente illustrativo di quanto appena detto potrebbe essere Telescope, a mio parere vetta inarrivabile dell’album, in cui la chitarra parte decisa e seducente per poi naufragare in una marea di droni estatici che si dissolve nel finale.  In altri episodi (Add infinity, la conclusiva Sheets two) droni e chitarra si assecondano a vicenda dipingendo sconfinati paesaggi di quiete ai quali viene quasi spontaneo abbandonarsi. E mentre in Map table la sei corde è protagonista quasi assoluta con il suo dettato folk limpido e ispirato, in due lunghe tracce come l’iniziale title track e Melodica, si fa discretamente da parte per limitarsi a preziose rifiniture, avvicendata nel secondo caso da un delicato tappeto percussivo di scampanellii. Resta da spendere qualche parola sulla qualità delle textures più puramente ambient, che in un panorama dove l’omologazione è altissima, godono di una certa riconoscibilità, grazie a un attento lavoro sui timbri. Un album meraviglioso.

Nathan Fake-Hard islands (Border Community): dopo lo splendido esordio del 2006, quel Drowning in a sea of love che portava il lirismo dei Boards of Canada ai margini del dancefloor era forse lecito aspettarsi dal giovane Fake una prosecuzione di quel discorso nel senso di una ulteriore rarefazione e ambientalizzazione, se mi passate il neologismo, del suono. Hard Islands, con la sua attenzione maniacale per il beat e i suoi ritmi sempre pulsanti, suona come un gigantesco vaffanculo a un destino forse glorioso ma troppo prevedibile. Mette subito le cose in chiaro l’opener The turtle, inarrestabile carroarmato ritmico che fra continui cambi di passo si mantiene comunque martellante. L’influenza Boards of Canada è relegata al breve intermezzo The curfew, quarta traccia in programma, e significativamente l’unica priva di ritmica. Per il resto, il beat imperversa, stratificato e curatissimo, come in Castle Rising che lambisce con eleganza territori cari ai Daft Punk e al tempo stesso sa essere assolutamente personale. Ma, intendiamoci, la melodia benché subordinata alle esigenze della cassa dritta è sempre presente, a volte sottotraccia, a volte epica e avvolgente come in Basic mountain, altre ancora sinuosa e astratta come nella conclusiva Fentiger. E il risultato finale, benché distantissimo dalle placide distese dell’ambient, si mantiene altamente emozionale ed emozionante.  

Richard Youngs-Beyond the valley of ultrahits (Sonic Oyster): uomo di multiforme ingegno e sterminata discografia, Youngs esplora da circa vent’anni i meandri di un’ispirazione apparentemente inesauribile che lo ha portato a muoversi fra folk britannico, minimalismo, avanguardia ed elettronica senza drastiche soluzioni di continuità, come se si trattasse di punti diversi di uno stesso spettro sonoro. Beyond the valley of ultrahits, assurdamente uscito in sole duecento copie in cd-r, applica a una materia squisitamente pop quell’afflato spirituale da sciamano ingenuo (per citare il titolo di uno dei suoi dischi più noti) che è forse il vero basso continuo della sua produzione, il minimo comun denominatore di tante peregrinazioni stilistiche. I riferimenti sonori spaziano da Robert Wyatt (anche per l’approccio vocale) alla synth-wave più raffinata della decade ottanta, gli arrangiamenti sono parchi eppure efficacissimi, le canzoni, dieci in tutto per appena mezzoretta di musica, perfette nella loro semplicità. La palma di migliore del lotto spetta al mio parere alla conclusiva, sofferta, Sun points at the world, in cui l’incedere faticoso della batteria è intralciato da uno costante sfrigolio di elettronica povera , ma è evidente che siamo di fronte al classico disco in cui ogni canzone ha il potenziale per fare innamorare perdutamente di sé almeno un ascoltatore. 

 Un Quarto Morto-Il dono della sintesi (Lost Cause/Shove/Unnamed et al.): discography-cd che raccoglie tutte le produzioni pubblicate dalla band marchigiana nel corso dei primi tre anni di attività, per un totale di ventiquattro tracce, Il dono della sintesi è una bomba di fastcore sparatissimo, in cui la velocità è il sintomo evidente di una viscerale urgenza espressiva. I brani pur nella frenetica brevità che li caratteriza dimostrano di avere una propria sintassi che si articola soprattutto attraverso un uso magistrale degli stop-n-go e delle accelerazioni (si veda il micidiale incipit di L’epoca della prostituzione): ed anche se in molti casi si arriva al traguardo in meno di sessanta secondi non ci troviamo mai di fronte alle sfuriate gratuite che, in ambiti limitrofi, caratterizzano ormai tanti-troppi gruppi powerviolence specializzati in pezzi più brevi di una gara di Usain Bolt. I testi, in lingua madre e spesso dai titoli ermetici non sono di facilissima decifrazione, ma conferiscono all’insieme un tocco cerebrale che contrasta piacevolmente con la fisicità assoluta della musica. Genuini e onesti nella loro proposta, gli Un Quarto Morto hanno finora dimostrato di saper raccogliere l’eredità del miglior HC italiano degli ottanta senza riproporne in maniera calligrafica il suono: la speranza è che non rallentino tanto presto. 

Wet Hair-Dream (Not Not Fun): duo dell’Iowa qui all’esordio sulla lunga distanza, i Wet Hair riescono ad espiare il peccato originale di un nome straordinariamente cretino con un sound coinvolgente che il titolo dell’album, al contrario molto sobrio, sa spiegare alla perfezione. In formazione c’è un ex-Raccoo-oo-oon, dato che da solo dice molto sia sulle atmosfere allucinate dell’album che sull’incapacità, forse congenita, di andarsi a scovare una denominazione almeno decente. La musica, più lisergica e meno tribale rispetto a quella dei  Raccoo-oo-oon, consiste di lunghe esplorazioni per tastiere, sintetizzatori e batteria (o drum machine) che pescano a piene mani in un bacino di influenze che comprende Suicide, Silver Apples e tutta la scena kraut ma che, pur mantenendo un piacevole feeling settantiano, dimostra di essere al corrente di tutto ciò che è accaduto nell’underground americano più freaky negli appena conclusi anni zero (Ordinary Lives ricorda le sfuocate visioni hawaiane dei Ducktails). Più liquidi e rilassati i pezzi dove il contraltare ritmico è affidato alla drum machine, più mossi e concitati quelli per batteria, ma identica la sensazione di straniamento finale. A coronare il tutto, una voce invasata e megafonata, sovente incomprensibile, che si spande a macchia d’olio sui tappeti strumentali aggiungendo una ulteriore nota di deliquio. Il secondo album, Glass fountain, già uscito ancora sotto le insegne della Not Not Fun, non mi è purtroppo sembrato in grado di mantenere i livelli di questa prima prova: in ogni caso,  un gruppo da seguire con attenzione.

Dovendo scegliere uno e uno solo fra i dischi qui commentati, probabilmente opterei per l’album dei Mountains, se non altro perché per circa due mesi è stata l’ultima cosa che ho sentito prima di addormentarmi. Per il 2009 è davvero tutto.

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