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Posts Tagged ‘autoanalisi’

“-Quando torni?”

“-Dopodomani, ma tardi. Considerami disponibile da mercoledì. Per giovedì comunque ci sono. Tu chiama per confermare l’appuntamento, che senza finanziamento il documentario non lo facciamo”
“Tranquillo, comunque ti confermo appena so qualcosa”
Chiude questo dialogo, e poi ne intraprende un altro tutto sommato simile, ma più frivolo: c’è da decidere luogo e ora della partita di calcetto del sabato. Ha appena usato un paio di lingue europee, e quando è a casa per qualche motivo se ne vergogna quasi, poi risponde in italiano a sua madre che lo chiama per il pranzo. Il cibo è risaputo e delizioso, ma anche semplicemente troppo, e a fine pasto presagisce una cattiva digestione. Lo comunica a suo padre, quando mamma si allontana un attimo, perché non vuole che lei prenda le sue parole come una recensione negativa, non è proprio il caso, non sia mai, ma sente comunque il bisogno di dire a qualcuno, forse anche un po’ vanamente, visto l’interlocutore storicamente poco ricettivo, che non è più abituato a mangiare così tanto, e soprattutto a trovarsi il piatto pieno mentre lui scrive messaggi su Whatsapp o cazzeggia sfogliando la Gazzetta. Un po’ perché a casa la Gazzetta cartacea si trova solo in centro, dove passano i turisti, e un po’ perché, tranne le poche volte che ordina su Glovo, ma si tratta di una situazione imparagonabile, cucina per sé stesso quotidianamente, a volte anche per il coinquilino che fa i turni, ed è abituato a sentire la fame che si approfondisce e si acutizza mentre taglia le verdure o l’acqua comincia a borbottare, e ascolta un telegiornale o un documentario su Youtube. Teme che sia una gigantesca regressione, ma a casa, stavolta si intende a casa dei suoi, ci sta poco, e non gli dispiace oziare, è come una licenza al militare, per quello che può immaginare, lui per sua fortuna ha fatto il servizio civile. E sa anche che non è così per tutti, un paio di amici suoi, scesi dall’aereo fanno una vita tendenzialmente uguale a quella che si sono costruiti fuori, e addirittura cucinano loro per tutta la famiglia (cazzo, comunque è vero che in Italia si parla solo di cibo). Anche per loro, però, è vagamente sconcertante tornare nei luoghi dov’erano stati bambini o adolescenti, o anche, alla fine non è così strano, universitari. Anche dopo una decina di anni lontano, bastano quattro o cinque giorni di vita alla base e il tempo smette di progredire. Certo, è una vita disossata, provvisoria, una spudorata vacanza, la sveglia suona poco, la burocrazia resta sullo sfondo, è difficile paragonarla a prima… Ecco, prima aveva responsabilità commisurate all’età, era studente, e adesso lavora e paga le tasse, ma appunto, lo fa altrove, e quindi quando ritorna, due o tre volte all’anno, più due che tre, resta solo il contorno, e a casa è di nuovo, completamente figlio dei suoi genitori, concessione che accorda volentieri in quanto temporanea, e con data di scadenza sempre in bella mostra. Tutti ai propri posti con dieci anni, venti se ripensa all’adolescenza, distribuiti in modo apparentemente equo sul groppone di ognuno, anche se le leggi della vita bilogica suggeriscono un peso specifico più in gravoso per chi partiva già relativamente attempato. Adesso, i genitori suoi e dei suoi amici sono sparpagliati intorno alla soglia dell’età pensionabile, e chi l’ha oltrepassata osserva gli altri con sguardo perplesso. Per lui invece è solo aumentato il tempo di militanza nell’età adulta, e a differenza di altri coetanei, non sente di doverne fare un dramma.

Ad ogni modo, anche se sotto le feste, sono quasi tutti livellati nel gesto uniforme del ritorno, non è irrilevante specificare a cosa si torna. Carlo per esempio è di Torino: lui a Torino è capitato solo un paio di volte per dei concerti, ma Torino è grande, e tornare da fuori in una città grande che hai frequentato, vissuto e percorso in tutte le direzioni, è ragionevolmente assai diverso dalla sua esperienza: paesino da alcune migliaia di abitanti, collegato agli omologhi limitrofi da nastri di asfalto che si stendono tra due porzioni indistinguibili di campagna quieta e abbondantemente addomesticata dai pochi che ci sono rimasti a vivere. Le frazioni nascono e muoiono su quella lama d’asfalto nel volgere di poche centinaia di metri, mentre i paesi si concedono qualche abbozzo di quartiere, di suddivisione e ramificazione interna. I suoi stanno ancora lì, e quando il percorso tra l’aeroporto più vicino e i confini del comune si esaurisce – sono passati a prenderlo suo fratello o uno dei due amici d’infanzia che non si sono mai spostati–  ha quasi la sensazione che potrebbe essere fermato dai carabinieri davanti al cartello d’ingresso, rettangolare, bianco con poche lettere nere, per un controllo documenti, perché ormai, per la comunità, lui si è tramutato in uno straniero. In paese entra e esce gente comunque, e non solo tramite la morte e la nascita, ma lui tende a vedere, lo deve riconoscere, solo le persone che conosceva da prima mentre invecchiano, in apparenza la massima concessione che sono riuscite a strappare alla stagnazione che tutto avvolge. Ovviamente entrano in paese in modo anonimo, senza controlli né tantomeno fanfare, e lui ritorna vagamente turbato in quella specie di campo gravitazionale che è il paese. A un certo punto del suo sviluppo biologico, ma soprattutto emozionale, lo percepiva come un padre padrone abbastanza inclemente, sentimento che non riservava invece all’uomo che era effettivamente suo padre, persona mite e tollerante, disposta ad accordare una ragionevole libertà di scelta ai figli anche negli anni cruciali dell’adolescenza. No, aveva spiegato a volte a uno dei due vecchi amici, non se ne era andato perché gli stavano sul cazzo i genitori. Fosse stato per quello, sarebbe potuto rimanere in zona e cagarseli poco: il suo era un conto aperto con il territorio, e doveva allontanarsene. No, non avrebbe saputo identificare i confini esatti del “territorio”, ma mentalmente doveva ormai essersene allontanato tanto da arrivare infine a attraversare la frontiera statale, perché alla fine, anche abitare a un’ora di distanza da casa come peraltro aveva fatto, non era sufficiente per sentire quelle radici ingombranti tendersi e poi spezzarsi.
Entra, dunque, inscatolato in un auto, con l’idea di essere cambiato in modo decisivo e la disponibilità a imitare temporaneamente il suo passato, e si risente un po’ se vede che qualcos’altro è cambiato a sua volta, allontanandosi da come lo ricorda, come in una partita di Un Due Tre Stella che durasse per mesi e… no, scarta l’idea, in effetti quel gioco funziona esattamente al contrario. Anche la casa dei vecchi, che non è più sua da tanto, è moderatamente cambiata, ma a ogni ritorno si scopre meglio disposto ad accettarlo, dopo tutto riconosce ai suoi genitori lo status di persone vive, per quanto abitudinarie anche in gioventù, per quanto inflessibilmente a presidio di un bastione di provincialismo intransigente, perché in fin dei conti ci parla tutte le settimane con piacere genuino, e accetta che il ciclo di vita degli oggetti di casa si esaurisca, e che lo spazio sia periodicamente sottoposto a riorganizzazione. Va tutto bene. Ma allora perché esige dal paese quell’immobilità impossibile al solo scopo di confermare i suoi pregiudizi? A volte cerca di ragionare sulla questione, ma è intorpidito dall’imponenza dei processi digestivi, e distratto dalla vita sociale che ogni volta si riattiva senza soverchi sforzi da parte sua, non riesce a spingersi fino a una conclusione convincente. È lì per riposarsi, dopo tutto, e con una certa incoerenza, scopre che con ogni amico singolo, o gruppetto di amici, mantiene abitudini ripetitive, frequenta gli stessi posti, non solo perché intorno non c’è molto da fare, affermazione fondamentalmente falsa se si prende su la macchina, ma perché farlo gli dà un senso di sicurezza, di tepore, di cose ritrovate. C’è la scusa della liturgia, parola magniloquente, del fatto che i suoi ritorni non sono frequenti e che quindi possono mantenere una piacevole aura di abitudinarietà con la libertà di spacciarla per ciclicità, al sicuro dal rischio di rompersi le palle che lo flagellava quando era più giovane e lì ci viveva davvero. Alla fine poteva essere anche pigrizia, in fin dei conti faticava lui stesso a credere che fosse così restio a rinegoziare l’idea che aveva della terra natia da evitare deliberatamente l’inserimento di novità.    
Poi, inevitabilmente, nel ciclo continuo di magnate e rimpatriate, di frequente le due varianti si sovrappongono, anche i 10, o 12 o 15 giorni di una cosiddetta vacanza lunga si assottigliano fino a lasciar intravedere la partenza all’orizzonte, e riscopre una leggera inquietudine all’idea di andarsene. Ci ragiona sopra, digestione permettendo, e ricorda che il sentimento non è nuovo, che si ripresenta puntuale ogni volte che quell’insieme di circostanze si allinea, e tende a sbiadire velocemente dopo alcuni giorni, meglio se lavorativi. Dovrebbe esserci abituato, suggerisce quell’impulso in lui solo relativamente radicato che per consenso generale viene definito “buon senso”. Ma non è così, evidentemente, perchè a tre giorni dalla partenza l’inquietudine presenzia in pianta stabile mentre chiacchiera con questo o quella, mentre realizza che a questo giro non riuscirà a beccare qualcun altro, mentre ingolla meccanicamente uno sproposito di pasta pensando alle pratiche austere che instaurerà al ritorno, per un paio di settimane, propositi che però è incapace di anticipare. E soprattutto, l’avverte mentre si addormenta pensando con sgomento a un viaggio che ha rifatto uguale ormai una ventina di volte, e si rende conto di non aver provato nulla di simile quando per un paio di mesi ha percorso come un pezzente, un pezzente felice e col culo paratissimo, il sudest asiatico. Emerge anche quando chiacchiera su Whatsapp con qualcuno che lo aspetta al ritorno, e che comunque potrebbe rivedere anche solo tre settimane dopo l’atterraggio.
“-Sai? Mi prende un po’ male all’idea di tornare. Probabilmente è perché faccio fatica a spostarmi.”
“-Sì, guarda, prendere l’aereo è una rottura micidiale. A quando il teletrasporto pubblico?”
“-No, guarda, l’aereo non c’entra niente. È che se sono qui faccio fatica a pensare che sarò di nuovo là tra pochi giorni. Anzi, proprio, non riesco a immaginarlo.”
“-Aspetta, in che senso?”
È una domanda ragionevole. Come poi è ragionevole che lui stesso cambi discorso davanti alla difficoltà di argomentare ulteriormente. Forse il problema è che quando torna a casa, riparandosi dietro alla scusa del meritato riposo, accetta con troppa facilità, e infatti non ci ragiona sopra neanche un po’, di spogliarsi delle responsabilità, che trascina in lungo e in largo per la città lontana, col loro peso quasi letterale, come uno zaino da alpinismo. È un parallelismo da quattro soldi, un po’ gli dispiace, anche se crede che se ne farà una ragione, ma gli tornano in mente le forche caudine del metal detector, le vaschette piene di cazzi suoi, monete raccattate alla rinfusa, la cintura dei pantaloni, l’i-pod antidiluviano, che attraversano in pochi secondi il ventre buio della macchina senza mai un problema (come la morte, sembra che queste cose succedano solo agli altri). Rientrare a casa è una piccola resa, è portato a concludere. Ammette che non gli fa schifo sentirsi leggero per una manciata di giorni, e lo trova accettabile. Riconosce anche che la normalità della sua vita lontana può essere scomoda ma che sarebbe eccessivo definirla problematica, e che ciò nonostante spesso non si sente attrezzato per sopportarla, e dire che sarebbe esclusivamente tenuto a provvedere a se stesso. Forse è anche per quello che a volte decide unilateralmente di affrontare problemi logistici che sarebbero del coinquilino, e glieli risolve lasciandogli un piatto pieno nel microonde (spento). Certo, la gentilezza, certo, l’essere in qualche modo contingente, traballante, e soprattutto coatto, una famiglia, ma alla fine il nocciolo della questione è che quel piatto in più è una minuscola fuga in avanti che quando si trova al paese non è possibile attuare perché ufficialmente si sta riposando. Non che sia falso, ma quel tipo di riposo, ci ripensa e se ne convince, contiene in sé i semi di una capitolazione, che finora hanno fatto il piacere di non attecchire, ma che in circostanze più aspre purtroppo potrebbero comportarsi diversamente. C’è poco da fare, pensa, anche stavolta tocca scavalcare l’ostacolo, se necessario strisciando, riportando quello sfasamento a casa e trascinandoselo al seguito per tutti i giorni necessari, finché le cose  non si sistemano – di solito la stanchezza aiuta a ritrovare la prospettiva – e la sensazione si dilegua. Mi succede tutte le volte, pensa. Sarà un rito di passaggio periodico?, si chiede. Tende ad annuire, pensando al malessere che percepisco come a un adattamento, una transizione, ecco, così ha più senso. Il confine statale, conclude, non c’entra un tubo, lo sorvola da seduto, le gambe quasi accatastate in uno spazio minimo, ma il più delle volte dormicchiando. Eppure non tornerebbe in Italia, quindi superare il confine deve comunque possedere un qualche significato non meramente simbolico. Forse però si sta confondendo, si sta in certa misura ingannando, perché ormai sente come condizione imprescindibile della sua lontananza il fatto di essere fuori, ma ha appena negato che le frontiere importino qualcosa negli assestamenti del suo equilibrio psicologico. Oh, sai com’è, si riesce a far progredire la vita anche in presenza di nodi irrisolti, a volte. Gli piacerebbe poter prevedere, o anche poter censire, non sa decidersi, quante contraddizioni lo accompagneranno fino al letto di morte, dove finalmente spariranno, e solo perché in primo luogo sparirà lui, mica per altro. E ha comunque appurato che tutte le volte che lascia casa per tornare a casa si mette in moto questa faccenda, ha deciso di chiamarla “processo”, che fa male ma non nuoce. Forse perché ogni volta che si riabitua a casa, aspetta, quale delle due?, la vecchia, la prima, dove non abita più, percepisce che i suoi antichi limiti sono rimasti lì, e che potrebbero avvinghiarlo di nuovo se si lasciasse catturare. Quanto tempo potrebbe volerci? Non resta a casa mai più di due settimane. E anche ammettendo, tanto per avventurarsi in un paradosso, che tornasse a vivere in paese, magari lavorando in comune come auspicava la nonna, perché dovrebbe restare a casa dei suoi? O non cambierebbe un cazzo, una volta ridotte le distanze in modo così drastico? E non è un po’ stupido, o anche molto stupido, pensare che i limiti esistenziali e caratteriali di una persona siano radunati, immagazzinati, in un luogo fisico che invece è stipato di oggetti tangibili, magliette scoloritissime, libri scolastici maciullati, cassette probabilmente smagnetizzate, che testimoniano passivamente che il passato è stato così e cosà? In nessuno dei due casi c’è margine di trattativa, ma è veramente la stessa cosa? Trova a mano un’altra metafora ritrita per difendere il ragionamento davanti alla sua stessa perplessità: i serpenti, ecco, i serpenti, che per crescere devono disfarsi della pelle vecchia, e gli insetti… che fanno invece gli insetti? Quando pensa ai limiti, concetto vago ma incredibilmente doloroso,non intende ovviamente tutti i limiti, in questo i limiti sono assimilabili alle persone perché, è semplicissimo, alcune se ne vanno e altre restano, se non sempre comunque per parecchio tempo, e alcune, soprattutto, è bene che spariscano perché ci danneggiano. È una verità indiscutibile, anche se tutta la retorica spicciola che circola su internet, i meme motivazionali e le frasi da Baci Perugina sulle persone tossiche hanno rotto i coglioni già da un po’. Quindi, casa dei suoi, è piena di limiti, più limiti che mobilio. Forse sta qui il problema. Forse è per quello che al telefono è più facile parlare coi suoi vecchi, non si tratta di pigrizia, non è poca volontà di collaborare alla manutenzione degli afetti, ad esempio giocare a carte con loro dopo natale  gli piace davvero, e a volte vorrebbe che le distanze fossero più malleabili, ma non certo per farsi stirare le camicie. Mamma, papà, scusatemi, la casa dove finirete i vostri giorni e io ho iniziato i miei è piena di ostacoli. E forse ne sono pieni anche i paraggi, perché altrimenti non avrei bisogno di stare fuori. No, ancora niente, forse questo punto per il momento non può sperare di risolverlo.
O invece, sente improvvisamente di essere arrivato alla fine di un ragionamento, sospetta di desiderare che a casa, intesa come il luogo dove è cresciuto, tutto resti immutato per un motivo che in realtà è nitido, precisissimo. Solo in parte per pigrizia mentale, solo in parte per aderire con fermezza a vecchie convinzioni ormai degradate a stereotipi. E solo in parte pure per una galassia di motivi alternativi che richiederebbe anni di riflessione assidua e accurata e che forse adesso nemmeno sospetta né ha gli strumenti per concepire. No. Nulla deve cambiare soprattutto perché, adesso si sente abilitato a pensarlo e gli pare un’ammirevole verità che potrebbe resistere all’inclemenza del tempo e dei mutamenti senza troppo calcificarsi o usurarsi, perché l’idea di un cambiamento radicale nella vita del paese potrebbe smentire l’impulso originario che l’ha spinto ad allontanarsi una decina di anni prima. E no, non perché potrebbe dubitare della sua scelta, troppa acqua è passata sotto i ponti, e ha costruito troppo su quella prima intuizione per smontare tutto quanto in fretta e furia. Le inversioni a U, pensa, hanno bisogno di scenari disastrosi per acquisire impeto e credibilità nel balletto delle ipotesi. Non sapere dove sbattere la testa può aiutare allo scopo. No, non è questo. Il problema è che realizzare che la sua vita è cambiata per sempre a causa un’intuizione sbagliata lo sconvolgerebbe. Scoprire infine che le cose non erano allora così stagnanti e irrimediabili come le percepiva, che quel senso di dolore e quasi di soffocamento che lo attanagliava anche quando viveva a portata di regionale da casa dei suoi, erano almeno in parte una suggestione o il frutto di una ristrettazza di vedute. È disposto ad accettare che valutazioni errate portino a risultati positivi, l’eterogenesi dei fini non va sempre a finire male, il problema, forse lo riconosce, è che ha costruito gli anni successivi sul convincimento che la sua vita non potesse cambiare, e soprattutto crescere, se non andandosene. Forse ha solo bisogno, come praticamente tutti, di un mito fondativo al quale guardare con rispetto e riconoscenza, e anche se riesce a riconoscere i limiti razionali di questa esigenza, evidentemente c’è una parte più profonda, più viscerale, del suo essere che non vuole sentire ragioni. Bene. Esserne al corrente è un buon punto di partenza per non esasperare le cose inventandosi verità assolute. Ora come ora, non può spingersi oltre nell’inesausta analisi di se stesso. È bene che anche un cagadubbi abbia dei limiti, si concede. E non è poi così importante stabilire, invece, quali e quanti limiti siano rimasti a casa dei suoi o in paese, visto e considerato che non sono riusciti a inficiare la sua libertà di scelta neppure quando si trovavano all’apice della forza. Dovrebbe smettere di temerli, e attraversarli, se necessario, con maggiore frequenza, perché in mezzo a quei limiti reali o percepiti continuerà a vivere la sua famiglia. E dovrebbe evitare di zavorrarsi di pensiero e sovrastrutture come purtroppo riesce a fare solo quando deve ammassare le lavatrici, il lavoro, il pranzo e la cena, la vita e il sonno in un solo giorno, e deve farlo senza avere ponderato tutto per filo e per segno. Che meraviglia sarebbe riuscirci senza farsi schiacciare dall’insensato groviglio delle incombenze, trovando il tempo per sedersi e riflettere, così da ripetere le stesse azioni quotidiane con un barlume di consapevolezza in più. Non è una faccenda che finisca una volta per tutte, comunque. Non finché dura la vita, almeno, che dura  esattamente quanto le contraddizioni. Dovrebbe preparare le valigie, intanto.

(scritto tra dicembre 2019 e gennaio 2020)

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