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Posts Tagged ‘catene di Sant'Antonio’

“IMPORTANTE! Spedisci questo messaggio a 10 persone per aiutare […] a guarire da un male incurabile. Simili catene in passato hanno salvato la vita di tanti altri bambini nella sua condizione. E molti di loro, ora adulti, conducono una vita normale”.

Si stropicciò gli occhi, scelse dieci dei suoi contatti e si fermò un momento a rileggere il messaggio. Il testo aggiungeva poco altro: non si spiegava in nessun modo come la condivisione dell’appello potesse aiutare quel bambino a sfuggire alle spire della malattia, ma si fidava: si fidava perché prima di essere menzionato in una catena del tutto simile, di lui non c’era traccia in nessuna anagrafe del paese, e in un certo senso paradossale il problema nemmeno lo riguardava. Ma via via che i messaggi si moltiplicavano, articolando radici intangibili ma sempre più estese nella cosiddetta realtà divenne progressivamente capace di pensare se stesso, prima a intervalli discontinui -sentiva quasi di essere, semplicemente, una luce che si accendeva, e accettava mansuetamente di spegnersi- poi con crescente continuità, progressivamente più avvezzo al peso dell’identità.
Uno dei primi sentimenti che esperì con forza, lo ricordava nitidamente, fu uno slancio di gratitudine verso le persone che continuavano instancabili a moltiplicare il messaggio che lo menzionava, a diffonderne la conoscenza presso terzi, investendoli a loro volta della responsabilità improvvisa di sospingere in avanti la sua storia, dando così respiro, e infine, inaspettatamente, tridimensionalità alle disadorne parole di quell’appello iniziale.
Il propagarsi nello spazio e nel tempo di quel testo che racchiudeva l’afflizione di una vita che terminava troppo presto, che si ripiegava su se stessa debellata dalla malattia, l’aveva in realtà fatta cominciare. E così la sua coscienza si era fatta progressivamente più presente, fino ad articolarsi senza interruzioni, e lui aveva appreso a riconoscere i dettagli salienti del suo essere bimbo di sette anni gravemente malato, la fitta insistita degli aghi delle flebo, i confini angusti della stanza d’ospedale, il legame con i pochi parenti delle cui visite serbava memoria, nessuno dei quali chiamava “mamma” o “papà”: persone che da adulto non aveva mai rivisto, forse proprio perché prima di apparire nei suoi ricordi non esistevano in nessun modo. Ma non avrebbe saputo dirlo con certezza assoluta.

Il testo dell’appello che aveva cominciato a proiettare la sua esistenza nel mondo esteriore era abbastanza laconico, ma forniva sufficienti elementi per dipingere una scena, una stanza di ospedale, per l’appunto, e fu al centro di quell’immagine che la sua coscienza si insediò inizialmente, arrivando poi a espandersi per esigue estensioni successive: la porta della stanza, che inizialmente era paragonabile a uno sfondo dipinto, un giorno cominciò ad aprirsi, rivelando l’esistenza di un corridoio che, come una strada in costruzione, si allungava progressivamente, fino al punto di permettergli passeggiate, seppure col carrello delle flebo al seguito. Lungo il corridoio, finestre, nelle finestre un paesaggio, e alla base di tutto, perché aveva scoperto di potersi trovare al quarto o quinto piano, persone rimpicciolite dalla prospettiva che si muovevano tra piccoli appezzamenti di verde, e carreggiate per le auto e le ambulanze con le quali arrivavano o se ne andavano i pazienti. La distanza non era tale da definire i passanti “piccoli come formiche”, e d’altra parte, essendo cresciuto in un ambiente per definizione asettico e sterilizzato, non poteva ancora avere una cognizione diretta di quelli o altri insetti. Riconosceva con maggiore facilità, sia per il contrasto cromatico che per la maggiore dimestichezza con essi, i camici bianchi del personaggio sanitario. L’immagine dell’ospedale arrivò a definirsi a tal punto da coincidere perfettamente con quella della principale struttura di una certa città, un centro d’eccellenza nella cura delle malattie terminali dell’infanzia: e fu lì che un giorno, potenzialmente indistinguibile dagli altri, si risvegliò: l’archetipo di ospedale nel quale aveva cominciato a proiettarsi la sua coscienza si era perfettamente mimetizzato col mondo esterno, e da quel momento, sospetta, aveva cominciato a esistere a tutti gli effetti.  

Non aveva mai perso la consapevolezza di come si fosse generato, di come fosse “nato”, anche se ormai, nella progressiva espansione della sua interiorità aveva abbozzato ricordi aurorali che si spingevano indietro fino ai 3-4 anni di età; era però fermamente convinto da che aveva avuto la possibilità di articolare pensieri con la necessaria continuità, che quella stanza non dovesse essere l’inizio e la fine della sua vicenda. Si era spinto oltre da tempo, aggrappandosi a quelle premesse, anche se era disposto a riconoscerle come tecnicamente false: doveva semplicemente continuare a farlo, come uno scalatore intento nell’ascesa di una parete rocciosa della quale non si scorgesse il termine. Pertanto, un passo alla volta, se era nato malato, poteva guarire, come in effetti poi fece in modo “miracoloso”; poteva uscire dall’ospedale, che era lentamente diventato un luogo fisico, poteva studiare (e d’altra parte, in ospedale sapeva già leggere e scrivere, benché avesse l’età di un bambino di prima o seconda elementare e non avesse mai visto prima un’aula scolastica); poteva lavorare e forse perfino arrivare ad avere una famiglia.
La sua storia, che probabilmente aveva cominciato a diffondersi per via cartacea, ed era poi ironicamente passata agli spazi immateriali della rete, circolava ancora: erano anni che veniva presentato come bimbo gravemente malato, che il suo nome commuoveva signore anziane, e anzi le prime a commuoversi erano ormai passate a miglior vita da tempo. Qualcuno aveva aggiunto all’appello anche una foto, o un’altra, o un’altra ancora, ed è superfluo ricordare che i bambini di quelle immagini non assomigliavano minimamente al suo aspetto da bimbo, o a come lo ricordava. E ovviamente, ormai, anche se forse non aveva più importanza, non aveva più sette anni: quelle informazioni fallaci non sembravano avere il potere di influenzare quello che precedenti informazioni fallaci avevano propiziato. A partire dai sette, era cresciuto un anno alla volta, come qualunque altro essere umano, e di fronte a una vita che si presentava ormai indistinguibile da quella di tanti suoi simili, il fatto di non avere realmente vissuto i primi sette anni di vita poteva quasi diventare secondario, accessorio, ovviabile (anche se come vedremo, non successe affatto). Esattamente come gli altri, aveva una vita da vivere: l’esame di maturità, la scelta di una facoltà, la ricerca di un lavoro, le prime bollette da pagare con soldi veramente suoi (perché nel contorno di tutto quello che si era inspiegabilmente generato intorno a lui céra anche un conto corrente con qualche risparmio).

Si era chiesto innumerevoli volte se, simmetricamente a com’era apparso dal nulla, non potesse poco a poco ritornarvi, perdendo lentamente contezza di sé, lasciando involontariamente spazio a minacciosi “vuoti di coscienza” che potevano estendersi fino a diventare continui, fino a fagocitarlo completamente. Analizzava il problema con una poco comune freddezza, scoprendosi un carattere ferreamente razionale che lo sorprendeva per il contrasto con l’irragionevolezza della sua storia personale, e si limitava a stabilire che non aveva elementi per pronunciarsi, senza potersi tranquilizzare ma anche senza concedersi ulteriori elementi d’allarme: concludeva che le patologie neurologiche degenerative della terza età non dovevano essere del tutto dissimili da quell’ipotetico processo di cancellazione, e anzi, per molti aspetti, significativamente più atroci. E che, non avendo elementi di nessun tipo per considerare un destino più plausibile dell’altro, non gli restava altro da fare che sospendere il dubbio, sapendo che sarebbe tornato a presentarsi con forza ancora maggiore di lì a poco. La lucidità non poteva renderlo immune alla fragilità, all’insicurezza, alla precarietà che aveva imparato quasi subito a riconoscere come prerogative ineliminabili di ogni creatura senziente che si trovasse a riflettere sui termini della propria autocoscienza, ma era proprio da quella stessa autocoscienza che estreva gli strumenti per relativizzare, circoscrivere, le sue paure.

Durante le ore del torpore notturno, però, le attenuanti della coscienza svanivano. Sentiva il sonno come intimamente più simile alla sua precedente condizione di inesistenza, una resa temporanea della consapevolezza. I sogni erano per questo benvenuti: anche se inquietanti o apertamente spaventosi, anche se non attribuibili all’azione normalizzatrice della coscienza, erano comunque un segno di continuità che poteva accogliere al risveglio con un certo sollievo. Per la sottile angoscia di una notte senza sogni, o senza il ricordo di essi, non disponeva invece di antidoti adeguati. Quello spazio vuoto poteva assomigliare a quello che esisteva (o no?) prima del manifestarsi della sua individualità, e che connotava, forse erroneamente, come pura assenza? Cercava di appellarsi al ricordo di imperfezioni sulla superficie liscia del riposo: l’impressione di uno starnuto, un soprassalto fugace causato da un rumore esterno, un risveglio interlocutorio dovuto alla prepotenza di una necessità fisiologica: “stanotte mi sono sentito russare”; “stanotte ho sentito scrosci di pioggia fortissimi, ma al risveglio c’era il sole”. Osservazioni che interpretava come preziosi segnali di sussistenza, a volte perfino come resistenza a un ipotetico richiamo del nulla. Non si sorprese quando altri gli dissero per la prima volta che aveva il sonno leggero, anzi sorrise in modo, agli occhi dei suoi interlocutori, apparentemente immotivato. E se per caso tale trascurabile osservazione riaffiorava nelle parole di un amico col quale aveva condiviso la tenda in campeggio, lo ricompensava per un attimo la soddisfazione dell’autocontrollo, la sicurezza di stare facendo tutto quanto fosse in suo potere per rimanere presente a se stesso. Col tempo, e senza inizialmente rendersi conto dell’enormità del paradosso, arrivò a assimilare la sua condizione all’aver contratto e sconfitto una malattia grave, l’acquisizione di una coscienza a partire da quelle circostanze impossibili a una guarigione. Eppure lui era nato, dal nulla, proprio come malato, la sua identità si era strutturata intorno a una grave patologia terminale (no, in questo senso non si poteva affermare che l’avesse contratta), e per continuare a esistere era stato necessario che questa recedesse fino a sparire. Ma a quella prima guarigione concedeva, chissà perché, solo la condiscendenza che si può accordare a una premessa necessaria ma inevitabile, mentre attribuiva un carattere quasi portentoso agli sforzi continui per l’esercizio di un autocontrollo senza incrinature.

Finì per trovare un equilibrio con gradualità, e in modo fondamentalmente involontario, attraverso il rapporto con gli altri: perché l’ovvia premessa di non poter rivelare a terzi la sua condizione lo obbligava a fingere, descrivendo nelle conversazioni di ogni giorno frammenti di un’infanzia che in parte non aveva realmente vissuto, momenti e immagini alle quali non era sicuro di attribuire uno statuto di realtà, perché potevano essere prodotti collaterali dell’insolita apparizione della sua coscienza senza per questo corrispondere a eventi reali. Tuttavia, la necessità di mimetizzarsi nei dialoghi con persone più o meno vicine aveva il pregio di distrarlo dallo sforzo incessante di autodominio al quale si sottoponeva, e  che a lungo termine avrebbe potuto logorarlo. E per poter sostenere quegli scambi, inizialmente da una prospettiva di pura necessità, aveva preso progressivamente a muoversi verso i suoi interlocutori, a capirli abbandonando una pericolosa propensione sospetto, a immedesimarsi in loro. Anzi, soprattutto parlando di esperienze comuni dell’età adulta, o comunque di un periodo lontano a sufficienza dalla macroscopica eccezione dell’infanzia, sentiva che la sua unicità non rappresentava in nessun modo un ostacolo alla comprensione reciproca, e trovava nei sorrisi degli altri una conferma disinteressata alla realtà della sua esistenza. E poi, a proposito di “unicità”: poteva davvero escludere che altre persone fossero approdate alla coscienza in quel modo imponderabile se era già successo in prima persona a lui?
Poco a poco, grazie al vincolo di prossimità che lo andava legando agli altri, arrivò anche a accettare il senso di confusione che lo assaliva quando pensava alle sue origini, comprendendo che la vaghezza e l’indeterminatezza dei suoi ricordi era sovrapponibile a quella di qualunque essere umano che si interrogasse sui primi anni della sua vita. La differenza principale risiedeva nel fatto che gli altri potevano affidarsi a ricostruzioni più solide, a una  mitologia con prove, generalmente affidata ai genitori o altre persone vicine, capaci di confermare e precisare il contesto di una fotografia scattata decenni prima. E anzi, non fosse per chi ci ha preceduto, insegnandoci a riconoscerci in un’immagine sbiadita, saremmo veramente in grado di provare che il bimbo piccolissimo che sorride al fianco  di un goffo pupazzo di neve è la stessa persona che rivediamo assiduamente allo specchio?
Ovviamente, doveva concederlo, lui non poteva chiedere quella consolatoria conferma alle migliaia di persone che avevano condiviso la sua storia, in forma di appello conciso e sgangherato, portandola, per  così dire su questo lato della realtà. Doveva anche rassegnarsi a non poter escludere del tutto un’improvviso singhiozzo della coscienza che lo portasse a scomparire simmetricamente a come era apparso, ma ormai era lì, e come tutte le persone intorno a lui aveva un’immagine adulterata, ricostruita, approssimata, di una porzione vastissima del suo passato: gli mancava soltanto un po’ della meccanicità, dell’indifferenza, con la quale gli altri accettavano questa ineludibile premessa.

Ricontrollò i dieci contatti, inoltrò il messaggio e chiuse la posta elettronica. Pensò che forse, in quel modo, stava accompagnando qualcun altro, che oltretutto poteva chiamare per nome, sulla strada invisibile che lui stesso aveva percorso tanti anni prima. E anche se non lo avrebbe saputo mai, quella remota possibilità lo fece sorridere.

(scritto fra la fine del 2019 e marzo 2022)

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