Il problema, se così vogliamo definirlo, di un concerto di Daniel Johnston è che la sua massiccia figura è talmente ingombrante, non soltanto in un senso sgraziatamente letterale, da relegare in secondo piano ogni altro dettaglio intorno a sé. Il locale innanzitutto, un postaccio anonimo con qualche velleità di troppo ospitato all’interno di un centro commerciale. O il pubblico che lo gremiva all’inverosimile, rendendolo quasi impraticabile. O ancora i gruppi di supporto: The Missing Leech non li ho proprio visti, di Esperit ho sentito grossomodo quattro canzoni, all’insegna di un anti-folk vorrei ma non posso con testi in catalano e inglese zeppi di riferimenti culturali a uso e consumo dei più incalliti indie nerd in platea. Parzialmente oscurata pure la band di tre elementi che accompagna Johnston nella maggior parte dei pezzi: diligente nel seguire le sbandate del suo ineffabile frontman, fa la sua parte ma finisce per sortire un effetto spiacevolmente normalizzante sulla scrittura miracolosamente sbilenca del nostro, che ne esce un po’ appiattita, assumendo spesso le forme di un pop-rock normalizzato e quasi generalista. D’altra parte va detto che i primi tre brani, con Johnston in solitaria, munito di chitarrina faticosamente strimpellata, trasmettono un senso di fragilità, di precarietà, che stringe il cuore. L’impressione, soverchiante per tutti la durata del set, è che possa rimanerci in quaunque momento: il braccio sinistro abbandonato a quel tremito incontrollato che avevo già riscontrato in vari video delle sue esibizioni live, il volto trasfigurato nello sforzo -evidentemente dolorosissimo- dell’interpretazione, le stonature ancora più palesi che su disco. Eppure, tra un pezzo e l’altro, nei dialoghi surreali col pubblico che lo sta idolatrando senza condizioni, emergeva dal dolore quell’ingenuità infantile, quella purezza che, dai tempi delle cassettine registrate in garage, sa trasmettere alle sue composizioni e che le fa amare molto aldilà delle loro evidenti lacune formali. Disarmante ad esempio quando indice un estemporaneo angolo delle richieste e attacca a cantare a cappella “Speeding motorcycle” mezzo secondo dopo la richiesta a pieni polmoni del mio amico Paolo, inseguito con leggero affanno dalla band. L’osservazione attonita del fanciullino intrappolato in quel corpo sgraziato, in quella mente segnata dalla depressione e dagli psicofarmaci, devia parzialmente la mia attenzione dalla musica: più che un caso umano, ad ogni buon conto, sembra un’epifania, e sono felice di avervi presenziato prima che fosse troppo tardi, ma le canzoni mi hanno restituito solo in parte la commozione o l’allegria ingovernabili che normalmente mi assalgono ad ogni ascolto domestico. La fragilissima magia johnstoniana traspare dalla spostatissima figura del suo autore ma sembra non passare completamente alle canzoni e viene da chiedersi se, date le condizioni del nostro, sia davvero possibile. E però, mi ripeto, è bello esserci e ascoltare tutto quello che ti aspetteresti da lui: oltre alla già citata “Speeding motorcycle”, tre pezzi da “Fear yourself”, e un sacco dalle incisioni pionieristiche degli ottanta, da “Walking the cow” a “The Beatles”: bis e chiusura inevitabilmente affidati a “True love will find you in the end”, il messaggio che instancabilmente ripete all’umanità da oltre venticinque anni. Ascoltatelo anche voi e non abbiate paura.
Posts Tagged ‘idoli di Kurt Cobain’
Daniel Johnston @ Bikini, 19/04/2012
Posted in Barcellona, concerti, tagged cantautori, concerti in luoghi squallidi, Daniel Johnston, Fear yourself, idoli di Kurt Cobain, numi tutelari dell'indie rock odierno, pop, songwriting on aprile 22, 2012| 1 Comment »
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