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Posts Tagged ‘pareti sottili’

Lo scarico del cesso a orari diversi. Le sigle di programmi televisivi di ogni ordine e grado a volumi tendenzialmente alti. Pianti di neonati. Pianti di bambini più grandi ma comunque molto piccoli. Pianti di bambini comunque piccoli ma già in età scolare (intervallati da lamentele prevalentemente comprensibili). Trapani che squarciano laconicamente il silenzio, nello stesso punto, per molte ore consecutive. Canzoni alla radio sporcate da rumori di fondo. I campanelli, numerosi ma mai sincronizzati. Conversazioni indistinguibili. Risate. Una voce solitaria, probabilmente al telefono, che parla, presumibilmente, in un dialetto arabo. Un Nokia Tune.
E tutti questi suoni dovevano provenire dagli altri piani, perché all’epoca gli altri tre appartamenti che si affacciano sul mio stesso pianerottolo erano contemporaneamente sfitti. Una coincidenza abbastanza incredibile, e infatti quando ne parlavo con qualcuno al telefono, i miei interlocutori rispondevano tutti la stessa cosa, che era davvero pioggia sul bagnato, che si vede che era destino, neanche un vicino per dare una mano, e allora sì, mi veniva da pensare che le loro risposte, quelle no, non erano una coincidenza. Ma alla fine, viste le mie circostanze, che altro potevano dire? Quando mi sono rotto la gamba erano già tutti vuoti: senza quell’incidente la presenza o meno di vicini sul pianerottolo sarebbe stata assai meno rilevante, e mi sarei limitato a dispiacermi per alcuni volti familiari che non avrei incrociato più. E non mi sarebbero nemmeno importate le tempistiche con le quali l’agenzia immobiliare cercava e soprattutto trovava rimpiazzi: la signora dell’appartamento 1, quasi novantenne ma arzilla, era morta di vecchiaia, quella del 3, di alcuni anni più giovane era finita in ospizio e la coppia del 4, tutte queste informazioni me le aveva date il presidente dell’assemblea di condominio, si era spostata in un appartamento più grande non lontano da qui per l’arrivo imminente di una bambina. Sembravo l’unico del pianerottolo autorizzato a rimanere al suo posto anche se, essendomi rotto la gamba, con la mobilità è ridotta al lumicino, aveva più senso parlare di obbligo che di concessione. La combinazione ancora più insolita è che di quei tre appartamenti già vuoti da un po’, non se ne sia riempito nemmeno uno durante i miei tre mesi di convalescenza, e in effetti la coppia di albanesi che ha occupato l’appartamento 1, curiosamente anche lei era incinta, è arrivata quando io avevo già ripreso a camminare da un po’ e, con la dovuta lentezza, avrei potuto farmi le scale a piedi. Quella stronzissima caduta in bicicletta però mi era bastata, e continuavo a prendere l’ascensore anche se non ero più costretto a farlo. Al 4 è arrivato quel ragazzo dall’aria distinta che non ricordo come si chiama, si è pure presentato ma ho scordato il nome e, probabilmente per pigrizia, non ha ancora scritto nulla sul campanello, mentre per il 3 le cose stanno andando per le lunghe, e già in un paio d’occasioni, tornando con le buste della spesa, mi sono trovato davanti lo stesso agente immobiliare troppo abbronzato e troppo profumato con dei potenziali clienti che poi, così parrebbe, hanno gentilmente declinato. In quel periodo però, di incontri casuali come questi non ne ho fatti, un po’ perché le trattative per i tre appartamenti dovevano procedere a rilento, e un po’ perché alla fine io uscivo lo stretto indispensabile: dovevo restare a disposizione per eventuali ispezioni della mutua e comunque non avevo voglia di sfiancarmi trascinandomi a destra e a manca con le stampelle. Rimanevo quindi in casa tutto il giorno con itinerari limitatissimi: dal letto al divano, dal divano al bagno e ritorno, una capatina nella zona cucina per mettere insieme un panino e via ancora sul divano, ovviamente facendo in modo di tenere la gamba più o meno alta, appoggiata sul tavolinetto, dove lasciavo anche il libro del momento o il computer quando non ce l’avevo in grembo. Perché quello potevo fare: stordirmi su Netflix e cercare di compensare altri periodi in cui, a malincuore, non riuscivo ad aprire un libro per settimane. A volte le lettere sulla pagina o le figure sullo schermo si facevano quasi indistinguibili, notavo che fuori si era fatto buio e allora mi rendevo conto che stavo più o meno portando a casa con successo un’altra giornata di inattività forzata. Ogni tanto però dovevo dare un po’ di riposo agli occhi e allora guardavo un punto del muro o del soffitto, lo schermo nero del computer o le calamite sul frigo, oppure chiudevo direttamente gli occhi, e ascoltavo i rumori intorno a me, che si ripetevano più o meno regolarmente senza per questo perdere in varietà, e che in generale dipendevano molto anche dal momento della giornata. Alla mattina, per esempio, sigle di tele e radiogiornali, oppure di cartoni animati: preparativi per la scuola o per l’ufficio. Facilissimo immaginare caffè, biscotti, latte e cereali in ogni direzione. La sera era forse il momento più animato, prima che tutto precipitasse con una regolarità non per questo meno improvisa, in un silenzio quasi unanime, rotto solo dai rumori estemporanei che porta un risveglio indesiderato per brevi necessità fisiologiche. Immagino che poi tornassero tutti a dormire senza problemi.
Ora, benché abbia descritto più o meno dettagliatamente i suoni che potevo recepire dalla mia posizione, sarebbe erroneo credere che passassi una buona parte del mio tempo all’ascolto. È anzi vero il contrario, erano e sono i suoni a farmi visita, a folate frequenti, e a volte continuo a ignorarli benché siano praticamente già entrati per conto loro. Abitando qui, in questo spazio ridotto circondato in ogni direzione da altri spazi ridotti, in questa palazzina di mono e bilocali, è facile abdicare, senza rendersene troppo conto, a una piccolissima percentuale d’intimità, come per una specie di tassa condominiale. Ma in generale sembrerebbe vigere una solidarietà inespressa fra i condomini, basata sul pragmatico riconoscimento che le pareti sono davvero trasparenti al suono e che nessuno degli abitanti pecca di fastidioso istrionismo nell’eseguire la sua vita quotidiana: pare che tutti accettino senza problemi un po’ di musica alta il sabato a mezzogiorno, e devo fare uno sforzo d’astrazione per rendermi conto che non è così dappertutto. E allora accetto di buon grado quando ho la casa invasa di musica dal vicinato: credo di aver imparato un paio di canzoni di Liguabue a alcuni piani di distanza a forza di ripetizioni settimanali, per poi trovarmi a canticchiarle mio malgrado, a bassa voce, mentre passavo l’aspirapolvere.
E in quel periodo di immobilità forzata le cose erano esattamente identiche, salvo per il fatto che quelle lunghe ore domestiche moltiplicavano le possibilità di esposizione involontaria ai suoni del vicinato. E le visite estemporanee delle vite altrui, anche se spesso non erano altro che uno sfondo effimero ai dialoghi di una serie, mi facevano compagnia: in quel periodo l’unica persona che mi veniva a trovare con frequenza era la mia ragazza d’allora, che passava quasi tutti i giorni con un po’ di spesa.
Se ci ripenso, e ogni tanto mi capita di farlo, non saprei indicare il momento esatto in cui ho cominciato a separare quel suono dagli altri, sono propenso a credere di non averlo isolato al primo ascolto, che in effetti non riesco a ricordare: sono mancati un prima e un dopo, e forse l’ho riconosciuto solo per accumulazione alla terza o quarta occasione. Ad ogni modo: quando me ne sono reso conto, era già lì. E nemmeno saprei dire se e quando se ne è andato, come spiegherò più avanti, né calcolare quante volte si è manifestato. Ma ogni volta che mi torna in mente, sento quasi la pressione del gesso sulla gamba, perché ho l’impressione di averla avvertita soltanto durante quel lasso di tempo, senza che tra i due elementi fosse tracciabile una relazione definita.
Quella voce di donna. Orizzontale: non la sentivo scendere dai piani più alti, e neppure si arrampicava dal primo. Nitida nella modulazione e al tempo stesso inintelligibile. Sono certo di averla sentita abbandonarsi a discorsi, ma non potrei riportarne una sola parola. Discorsi che per il tono sembravano non avere né richiedere un’interlocutore. Brevi. Vorrei dire perentori, ma probabilmente sbaglierei termine perché tale sensazione si sarebbe potuta attribuire principalmente al ristabilirsi precoce di quel silenzio mai veramente assoluto che era l’atmosfera abituale del palazzo, il nostro habitat acustico consueto. Parlava, ma più spesso piangeva. Sono sicuro che a farlo fosse la stessa voce perché in un paio di circostanze ho sentito chiaramente il monologo frantumarsi d’improvviso, schiacciato da singhiozzi, che si estinguevano a loro volta improvvisamente, come un principio d’incendio tempestivamente domato. Ho un certo timore di ricostruire erroneamente i fatti, di lasciarmi guidare da risistemazioni posteriori della memoria, ma ho la sensazione, anche dopo averla identificata con chiarezza, di avere continuato a ignorarla più o meno regolarmente fino a una circostanza apparentemente casuale che descriverò a breve.

Quindi restavo in casa perché molto altro non potevo fare. E per me si trattava di una novità. Fino ad allora avevo considerato quel bilocale come una specie di ripostiglio arredato, e ci tornavo principalmente a dormire. Lo tenevo pulito con un certo scrupolo, avevo appeso alle pareti un paio di poster, qualche oggettino sulle mensole, mi ci trovavo bene, a volte ci dormivo con la mia fidanzata, ma non gli attribuivo eccessivi significati. Non era la casa dei miei sogni, non poteva esserlo e d’altronde non credo che nessuno, spingendo al massimo le sue aspirazioni possa arrivare a desiderare soltanto un bilocale. Ci tenevo le mie cose e forse nelle ore di sonno diventavo a mia volta un oggetto in più nello spazio, anche se era proprio la mia presenza a giustificare quella di tutto il resto. Lo concepivo come un punto d’appoggio, e in effetti, ore notturne a parte, mi ci fermavo davvero poco. L’incidente mi obbligò a ricadere su quello spazio con tutto il mio peso, a guardare la casa con occhi diversi, anche soltanto in virtù del fatto che avevo molto più tempo per farlo. Ovviamente fu in quel periodo che, senza trasformarsi nella reggia che non era, divenne effettivamente casa mia. I momenti di sconforto non mancavano, spesso accompagnati dal dolore fisico, ma le circostanze possono indurmi a un certo pragmatismo, e l’assenza di alternative paradossalmente contribuiva a rendere la situazione sopportabile. Pensavo ai fatti miei, e i fatti miei erano che avevo una gamba rotta, e dovevo arrangiarmi come potevo. Pensavo a quello che leggevo e che guardavo, mi ci concentravo, seguivo le trame o le argomentazioni e non perdevo tempo in pensieri aggiuntivi. Ma una sera, aprendo la porta alla mia ragazza, gettando uno sguardo involontario al nulla dietro di lei, mi ritrovai a pensare che quella voce che non era la sua, quando la sentivo, si trovava più o meno lì, davanti alla porta, e mi chiesi dove potesse essere in quel momento. Poi lei entrò e, credo di ricordare che smisi di pensarci. C’era la cena da preparare, o un’altra incombenza qualunque. Ma probabilmente, a partire da quel momento, quando le aprivo riappariva l’altra voce, così diversa dalla sua, e ripetevo quella domanda tra me e me in modo leggermente meccanico, come se stessi cercando un oggetto momentaneamente smarrito nel piccolo perimetro di casa. Dentro casa però è sempre entrata solo una voce, quella amica e conosciuta della mia fidanzata, e d’altronde lo spazio per altre presenze non abbondava. Infatti penso non fosse completamente casuale che mi venisse in mente subito prima o dopo di aprire la porta.
Amavo quelle conversazioni. Avevano il potere di spostarmi delicatamente da dove mi trovavo, cosa che riuscivano a fare anche quando non ero costretto in casa e potevo spostarmi liberamente. Era una capacità, questa, che sembrava non dipendere dalle circostanze esterne. Eppure confesso che a volte mi capitava di trascurare il senso dei discorsi, perdendomi nel suono della voce, nel modo di ridere, nella pronuncia vagamente difettosa della erre, dettagli che mi intenerivano e per i quali a volte poteva valere la pena sembrare disattento e chiedere cortesemente che per favore ripetesse l’ultima frase. Ovviamente poteva anche succedere che rimanessimo in silenzio, e i suoni che riempivano l’appartamento erano gli stessi delle mie giornate solitarie, dialoghi di serie o film, l’acqua che bolliva, che a volte dimenticavamo ritrovandola dimezzata nella pentola, e il familiare rumore ovattato della vita degli altri condomini. Ci raggomitolavamo sul divano, studiavamo una sistemazione compatibile con il mio infortunio, e lasciavamo che intorno a noi si dipanassero quei suoni mentre con gli occhi seguivamo un film.

Solo dopo avere constatato alcune volte che quella voce non era la sua, osservazione peraltro assolutamente banale, e che non sapevo dove fosse quando non la sentivo, cioè quasi tutto il tempo, cominciai a chiedermi di chi fosse. Notarne con regolarità l’assenza fu probabilmente un modo per avvicinarmi a quella domanda. Ma non avevo risposte di nessun tipo, né avevo pensato di ragionarne con qualcuno. Con la mia ragazza decisi di evitare l’argomento per il timore imprecisato di alcune conclusioni erronee che avrebbe potuto trarre dal mio interesse per la questione. A posteriori non saprei nemmeno definire di cosa si trattasse, avevo semplicemente la sensazione che l’argomento l’avrebbe irritata, e preferivo evitarle e evitarmi una seccatura. Forse, ipotizzo, avevo intuito in lei un rifiuto deciso a parlare di cose… campate per aria?, che si scontrassero con la sua visione del mondo ferreamente razionale. Non che la questione avesse alcunché di apertamente illogico, ma forse temevo che lei considerasse una simile conversazione un puro spreco di tempo. O forse il mio timore era ingiustificato e non avrei dovuto preoccuparmi tanto di contrariarla: al massimo mi avrebbe risposto che non ne aveva idea e tutto sarebbe morto lì.
Quindi a volte succedeva che mi trovassi a pensarci da solo. Avrei potuto credere che la voce appartenesse alla signora del 3 solo chiudendo un occhio su alcune evidenti forzature. Nei mesi precedenti me l’ero trovata un paio di volte davanti al portone del palazzo, con le chiavi in mano, mentre guardava fisso davanti a sé come aspettando che qualcuno le aprisse. La prima volta in perfetto silenzio, la seconda mentre biascicava parole incomprensibili. Le avevo chiesto come stava, se potevo aiutarla, e mi aveva risposto immediatamente, seguendomi docile fino all’ascensore. L’avevo salutata dicendole di non farsi scrupolo a suonare in caso di bisogno. Lei aveva annuito, e ci eravamo salutati. Poco tempo dopo, una signora del secondo mi raccontò, probabilmente spinta da un desiderio di spettegolare sincero ma scevro di perfidia, che i carabinieri avevano trovato la mia dirimpettaia in una viuzza adiacente alla vicina piazza, piantata in mezzo alla strada, con una borsa della spesa e la bicicletta buttate per terra in malo modo. A quanto mi hanno riferito, non era stata in grado di spiegare ai carabinieri perché si trovasse lì, né da quanto tempo. Non ricordava il suo indirizzo e alla richiesta di declinare le sue generalità aveva risposto con un nome sbagliato. Credo di non averla più incrociata, dopo quel secondo incontro sul portone, e la successiva decisione, presa probabilmente dai figli di sgombrare l’appartamento, non mi sorprese. La signora del secondo piano e un altra vicina non furono poi in grado di dirmi in quale casa di riposo fosse alloggiata dopo la sua partenza obbligata. Però la voce non poteva essere la sua. Quando ho cominciato a rendermene conto, lei già non c’era più, e no, anche se le pareti ne attutivano e distorcevano il suono, giurerei che quella che ho sentito parlare fosse una donna significativamente più giovane. Poteva essere sui trenta, trentacinque anni, e anche se potevo sbagliarmi ero comunque sicuro che quella non fosse la voce di una donna anziana che a maggior ragione avrei dovuto riconoscere. Alle altre donne del pianerottolo non pensai mai, e anche per loro valeva lo stesso ragionamento: le precedenti vicine se ne erano già andate, le nuove non erano ancora arrivate. Sul pianerottolo ero solo, e non aveva molto senso pensare che altre abitanti del palazzo scendessero o salire le scale per fermarsi a due passi dalla mia porta. Se in quel momento ci fossero state altre vicine avrei potuto credere di sentirle parlare da sole per una manciata di secondi prima di entrare in casa:  per quanto leggermente insolita, l’ipotesi avrebbe comunque avuto un senso.
Mi restava da concludere che le pareti fossero ancora più sottili di quello che credevo, che la mia percezione di prossimità fosse semplicemente sbagliata, e che anche molti altri suoni del palazzo provenissero da una posizione diversa. Mi sembrava assurdo, ma poco a poco mi ero assuefatto a questa ipotesi, soprattutto in mancanza di spiegazioni migliori, e quando la sentivo, di solito nel pomeriggio, anche se mi sembrava vicinissima non muovevo un dito, accettando che si trovasse su un altro piano, a un’altezza diversa, che in quelle condizioni avrei potuto raggiungere soltanto arrancando verso l’ascensore con le stampelle per poi schiacciare un tasto a caso sperando di averci azzeccato: pericoloso, avrei potuto rompermi anche l’altra gamba, e difficile da spiegare se sul pianerottolo d’arrivo avessi incontrato un qualunque abitante del palazzo.
E se avessi incontrato lei? Davo per scontato che l’avrei riconosciuta, benché non avessi la minima idea delle sue fattezze, ma non potevo immaginare come si sarebbe svolto l’incontro, anche perché tutte le parole senza eccezioni, in quella situazione, sarebbero suonate sbagliate: “cosa vuoi da me?”, per esempio, oppure “Perché piangi?”. Avrebbe avuto ragioni in abbondanza per non rendermi conto della sua presenza, e anzi, il mio comportamento era il mio comportamento a poter essere qualificiato come molestia. Quindi pensavo disordinatamente tutto ciò, supposizioni e immaginazioni mi esplodevano di colpo nel cervello, lasciandomi intontito, ma non facevo nulla, continuavo a guardare le mie serie, a preparare il mio panino, e al limite alzavo lo sguardo e sospiravo, colpendo con gli occhi un punto a caso del soffitto. Solo una volta, sentendola piangere e parlare per quello che a me sembrò un minuto buono a una distanza apparentemente ridottissima, mi alzai senza pensare e mi avviai verso la porta, che al massimo trenta secondi dopo era spalancata, col timore, finalmente, di trovarla davanti a me.
Ma il pianerottolo era vuoto, come era ragionevole attendersi. Guardavo le vecchie piastrelle risalenti agli anni settanta in una posizione buffa, con la gamba ingessata leggermente protesa in avanti, cercando di cogliere i segni eventuali di un suo passaggio, o comunque di un’attività umana che latitava da quando tutti i miei vicini se ne erano andati. E in quel momento non mi sarebbe dispiaciuto che passasse qualcuno col cane o le borse della spesa, qualcuno disposto a evitare l’ascensore perché fare le scale fa bene al cuore, ma tutto restava immutato e cominciavo a sentirmi stupido per aver cercato così all’improvviso di trovare quello che semplicemente sembrava non esserci. Rientrai in casa, e credo che inconsciamente, a partire da allora, cominciai a prestare meno attenzione ai rumori esterni allo scopo di difendermi dalla vergogna che avevo provato in quella circostanza.

Un mese dopo mi tolsero il gesso, e cominciai a frequentare quotidianamente sessioni di fisioterapia. La gamba riprendeva lentamente a ritrovare il pavimento, e il periodo sotto mutua si concluse. Ricominciai a lavorare e, nel ritrovato casino della vita quotidiana, mi stupii quasi di come il mio pianerottolo riprendesse vita all’improvviso. Intrecciavo cordiali, superficiali rapporti coi nuovi dirimpettai, scoprendo quanto mi confortasse sapere che avrei potuto disturbare qualcuno in caso di nuova estrema necessità, cosa che prima dell’incidente non avrei creduto. In quello stesso periodo assistevo senza riuscire a trovare soluzioni al deterioramento della mia relazione, e temo che anche quel fattore mi spingesse a guardare i nuovi vicini come a un’improbabile ancora di salvezza. Non saprei dire esattamente cosa avesse smesso di funzionare, e a volte guardandomi nello specchio del bagno o dell’ascensore, constatando lo sconcerto e la preoccupazione che mi riempivano gli occhi, pensavo che questa mia incapacità di individuare il problema potesse essere a sua volta il problema, che forse avevo passato quei due anni con lei credendo di capire una situazione e conoscere una persona, mentre nemmeno sospettavo la mia incapacità di spingermi oltre una valutazione superficiale dei fatti che ero comunque arrivato a credere adeguata, forse perfino acuta.
I mesi successivi furono caratterizzati da una persistente situazione di smarrimento e spesso, mentre camminavo per la strada avevo l’impressione che la gamba, benché sostanzialmente guarita, potesse cedere all’improvviso lasciandomi inerme sul marciapiede. La normalità, dopo un’interruzione forzata come quella che mi aveva interessato, si ripresenta sempre con connotati di estrema aggressività, è difficile seguirne il ritmo, e pensando in prospettiva sembra quasi impossibile che la nostra quotidianità abbia avuto esattamente quelle stesse caratteristiche con le quali sembriamo incapaci di confrontarci. È ragionevole credere che la normalità senza ripetizione smette di essere tale, e mentre mi spostavo con la sensazione irremovibile ma probabilmente erronea di zoppicare, generalmente in direzione dell’ufficio, poteva tornarmi in mente una frase casuale dal fitto di un pomeriggio di lettura col gesso appoggiato sul tavolino a ricordarmi improvvisamente quanto fossi indifeso. Erano tutte venute meno le condizioni che avevano permesso al tempo di essere provvisoriamente così denso, e mi dovevo trovare a riconoscere che certo, era quella profondità l’unica situazione qualificabile come eccezione. La percezione di essere al sicuro solo oltre il portone del palazzo ci mise circa due mesi a sparire, nonostante una volta abbia inciampato nella scalinata d’ingresso, mettendo a repentaglio mesi di terapie. Per fortuna riuscii a mantenere l’equilibrio.
A volte sul portone incontravo i nuovi vicini che avrei potuto incrociare anche sul pianerottolo, e le salutavo educatamente. Mi imbattevo anche in persone che continuavo a non conoscere come prima dell’incidente, ma che esibivano con assoluta normalità il possesso delle chiavi dell’edificio e cercavo di salutare pure queste, generalmente riuscendoci. In un paio di casi, però, sospetto di essere rimasto a squadrare per una frazione di secondo di troppo due o tre donne delle quali ignoravo nome e piano come fossi stato in urgente attesa di una rivelazione della memoria che poi non si era presentata. Loro si erano irritate come se il mio sguardo avesse cercato di frugare nelle loro teste -quando invece l’unico cranio che volevo scandagliare era il mio- mi avevano restituito uno sguardo di genuino fastidio ed erano andate per la loro strada. In ognuno di questi casi, mi ero ritrovato da solo cercando a memoria la risposta che speravo di ottenere dai loro volti, intuendo caso per caso, separatamente, senza operare collegamenti fino all’ultimo, che avevo temuto per un attimo di avere davanti a me la voce del pianerottolo. Ma nessuna delle due, o delle tre, aveva proferito parola, e non era stato possibile avvicinarsi in nessun modo a quella voce che intanto temevo di cominciare a dimenticare, quando invece era più ragionevole supporre che cercassi inconsciamente di non ricordarla.
Anche se la ricostruzione di tutte le percezioni che collegavo alla mia normalità precedente l’infortunio si stava rivelando lenta e discretamente sofferta, era un dato di fatto che non fossi più a casa a presenziare gran parte dei suoni quotidiani che avevo imparato a isolare dall’avamposto obbligatorio del divano. Quelli che continuavo a sentire al risveglio o al ritorno erano trascolorati attraverso l’abitudine nell’indifferenza, mentre gli altri erano spariti perché ero io in primo luogo a essere assente per riconoscerli. Poteva succedere che il sabato o la domenica un suono, una canzone o una voce familiare facessero capolino, facilmente riconoscibile, ma percepivo che l’alterazione di quelle circostanze originarie aveva incrinato qualcosa in quei… segnali, che ormai avevo fatto aderire alle circostanze del mio periodo d’infortunio. Ho sentito i nuovi vicini coversare tra loro sul pianerottolo, ma era quasi sempre domenica, e siccome prima non c’erano,  la mia memoria ha cominciato pazientemente a conservare le loro voci in una scatola diversa. A volte mi chiedevo oziosamente, spingendomi a pensare di prendere un giorno di ferie il martedì o il mercoledì, quanti e quali suoni di quei pomeriggi si sarebbero ripresentati cercando di ricreare condizioni il più possibile simili a quelle del periodo. Una specie di estrazione a sorte, visto che avrei dovuto rimanere a casa almeno una settimana per ritrovare segni di continuità Poi lasciavo cadere quell’idea e mi limitavo a osservare senza turbarle le circostanze della mia quotidianità presente, a ascoltarne i suoni.

(scritto fra la fine del 2019 e l’inizio di marzo del 2020)

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