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Posts Tagged ‘teatro sperimentale’

Quello che leggerete più avanti, alla fine dei vari pipponi, è un remix. Non è indispensabile, ma potrebbe esservi di qualche utilità leggere o rileggere la traccia originale. Eccola:

Cercando di approdare finalmente a casa mentre il venerdì sera già si staglia minaccioso su di lui, pensa solo e soltanto al momento in cui potrà togliersi le scarpe per poi lasciarle in un angolo per conto loro a puzzare piano piano. In quella, nel viavai degli umani sul marciapiede, gli appare una ragazza carina che si ravvia i capelli osservandosi nello specchietto di un motorino parcheggiato. Senza fermarsi, si scopre ad osservarla: deduce rapidamente che il motorino non deve appartenerle perché di sicuro le manca un casco e forse, qui si rende conto di sconfinare nell’indimostrabile, perfino l’apposito patentino. Mentre si volta per non lasciarla uscire dal modesto palcoscenico del suo campo visivo, la vede ripartire in direzione opposta alla sua, nessuna variazione di rilievo nell’acconciatura, pronta a portare verso un obiettivo imperscrutabile quella bellezza, evidente, che ha appena sentito il bisogno di ispezionare. Lei si dissolve fra la gente, Il motorino immobile a mezza via, e lui, in mancanza di ulteriori distrazioni, ricomincia meccanicamente a pensare alle sue scarpe.

Trattasi di I pit stop della bellezza, testo assai vecchiotto, che tenne a battesimo nell’ottobre del 2008 la categoria delle Microscopiche apparizioni, che personalmente ritengo una delle più vitali e peculiari di tutto il blog. Per i più precisini, categoria nella quale mi includerei a pieno diritto, ecco qui il link originale.

Non saprei ricordare se quando scrissi questo testo mi ruzzolava già per il capo l’idea che cercherò di mettere in pratica nello spazio di questo post. Ad ogni modo, al momento giusto, sapevo che l’estrema brevità e la densità semantica ne facevano una cavia ideale per l’esperimento. Poi sono un bradipo, e nel frattempo siamo già nel 2013.

Ebbene, ho sempre avuto un’attrazione morbosa per i traduttori automatici, mi ha sempre soggiogato la loro sovrannaturale capacità di generare ciecamente poesia tanto limpida quanto arbitraria a partire dall’inosservanza e/o dalla violazione reiterata dei costrutti e della sintassi di una lingua, dei nessi semantici di un testo, di quel senso del contesto che è il valore aggiunto di un bravo traduttore. Suvvia sono macchinette, direte voi, per parole sfuse vanno anche abbastanza bene, non imbastirci sopra fantastiche divagazioni (cit.). D’accordo, ma sarebbe bello capire come e perché una macchinetta che non sa apprezzare peso, forma e sapore delle parole, nella sua sistematica distruzione dei significati lasci dietro di sé motti imprevisti e purissimi, sentenze vorticose, o semplicemente cazzate esilaranti. È qualcosa di stupendo. Qualcuno potrebbe spiegarmelo in termini di algoritmi, di programmazione, senza che mi perda nella nebbia a metà della seconda frase?

L’idea, quindi, era sottoporre un testo a radicale riscrittura dopo averlo esposto a uno sfibrante ciclo di traduzioni e ritraduzioni fin quasi al punto di cancellarne integralmente le sembianze di partenza. La lingua di rimbalzo doveva inizialmente essere l’inglese, un po’ perché è stata la prima a farmi assaporare da fanciullo la gioia delle deformazioni maccheroniche e un po’ perché alla fin fine le differenze strutturali con l’italiano sono abbastanza pronunciate da permettere alla macchinetta di operare lacerazioni di senso ad ogni piè sospinto. Sì, sarebbe successo anche col tedesco, ma non mi suonava famigliare.

A quel punto, il parallelo musicale, pur non essendo io un fanatico della remixology aveva già preso il sopravvento, avallato da qualche esempio illuminante della strada che avrei voluto percorrere. Si trattava, in realtà, di una suggestione o poco più, visto che delle reali tecniche di remix musicale ho tuttora una cognizione straordinariamente vaga. In aggiunta, avevo visto usare il termine da Aldo Nove per certi suoi rimaneggiamenti di Nanni Balestrini, e siccome la prosa di Nove mi ha sempre suscitato stupefatta deferenza, due più due, quattro. Forse nel mio caso, per quello che avevo in mente, sarebbe stato più congruo parlare di plastica testuale di un testo sfigurato dal traduttore automatico. Ma in realtà questa definizione mi è venuta in mente appena tre ore fa: remix era e remix è rimasto.

L’idea l’avevo poi lungamente abbandonata, anche perché la sua attuazione si presentava eccessivamente laboriosa al mio cervello perennemente deconcentrato. Dal nulla, ho ricominciato a lavorarci un paio di giorni fa, senza motivi particolari, in un momento di svagato cazzeggio. Ho cominciato così a allestire un elenco di prime traduzioni de I pit stop, la vittima designata, attingendo un po’ a caso dal menù di lingue del traduttore di Google. Ho incluso mie vecchie fissazioni, tipo il finlandese, le esotiche lingue materne di qualche caro/a amico/a, come il lituano, varie asiatiche perché doveva per forza nascerne qualcosa di interessante, e alcune altre di cui neppure conoscevo il nome, ma che a naso attribuivo all’India Misteriosa, che è pur sempre Asia, ma fa storia a sé. Ho finito per escludere tutti i parenti stretti dell’italiano, strutturalmente troppo simili, e alcuni pesi massimi come inglese, guarda un po’ , e tedesco. Ho fatto una ventina di  tentativi e in corso d’opera ho evidenziato le frasi più assurde per orientarmi nella scelta. Se volete, potete scaricare il documento. A seguire, trovate comunque una selezione delle frasi più… belle? deformi? assurde? impreviste? che mi ha riservato la fase preparatoria. Tenete in conto che il testo di partenza è quello riportato all’inizio e che in ogni caso ho applicato una volta sola il processo di traduzione e ritraduzione. Mi limito a una dozzina di esempi:

Bengalese: “infine, il Venerdì sera a casa quando stava già cercando incombe minacciosamente sulla terra…”

Esperanto: “fino a quando non si lascia il tempo per uscire dalla fase di modesta della sua visione che la vede ancora una volta nella direzione opposta…”

Goergiano: “egli brucia la gente, ancora strada a metà strada…”

Indonesiano: “cercando di atterrare finalmente a casa nella notte di Venerdì, minacciando telai su di esso già…”

Islandese“…pensando solo ed esclusivamente nel momento in cui si può prendere il via le scarpe e poi spostarli in un angolo del proprio essere risolto…”

Kannada: “…l’odore di loro, già si profila minacciosamente su di lui come, in ultima analisi, ma il tempo che mi sento come cercare di terra”

Latino: “in questo paese, in mezzo a uomini in marmi…”

Lituano: “…e solo quando lui può togliersi le scarpe e lasciarle in un angolo del tuo respiro lentamente”

Svedese: “…pronto a guidare verso un obiettivo di bellezza insondabile, naturalmente, ha appena sentito il bisogno di controllare”

Telugu: “che nel centro del lato degli esseri umani…”

Ungherese: “fino a quando non lascia il tempo alla sezione poveri della vostra visione…”

Vietnamita: “…subito dedotto che il motore non appartiene a lei perché non è sicuro e può essere un casco…”

Al termine di una dolorosa selezione, scartata l’idea di scegliere a priori una lingua esotica in quanto tale, mi sono pronunciato per il grande isolato linguistico della penisola iberica, il basco. Varie considerazioni hanno motivato la scelta: innanzitutto il miracoloso magnetismo di alcune frasi partorite dalla macchinetta. In secondo luogo, un fattore determinante per la rielaborazione narrativa: nella ritraduzione basca è risultata inspiegabilmente soppressa la protagonista della storiella originale, quella ragazza carina che, generalmente riconvertita in bella ragazza appariva saldamente nel resto delle rielaborazioni. Inoltre, in basco è sopravvissuta la parola palcoscenico, trasformata in palco e scomparsa negli altri diciannove casi. Proprio a partire da quel palco, che nel testo originale aveva una funzione puramente metaforica, ho organizzato la riscrittura. Prima di proseguire, conviene però dare un’occhiata al materiale grezzo:

Infine, il Venerdì pomeriggio a casa, mentre la terra Telai minacciosamente su di lui cercando, credo, e solo nel momento in cui si tolse le scarpe e poi, lentamente, lasciare che l’odore del luogo. In mezzo al marciapiede di esseri umani, a quanto pare, come uno specchio, che fissa i capelli in un rispetto motorino parcheggiato. Senza fermarsi, si gira per vedere: i suoi membri in fretta alla conclusione che il motore non era al sicuro e, forse, a causa della mancanza di un casco, qui è a conoscenza di sconfinare licenze nell’indimostrabile e speciale. Anche se non si vuole lasciare, prendere tempo per moderare le loro vista sul palco, lo fa ancora una volta nella direzione opposta del cambiamento non è nell’acconciatura significativo, pronto a muoversi in direzione di un obiettivo, la bellezza imperscrutabile dell’ovvio, semplicemente non sentire il bisogno di essere ispezionati. La gente per sciogliere il motore ancora a metà strada, e ogni mancanza di distrazioni, comincia a pensare meccanicamente delle sue scarpe.

Alla fine, nel tentativo di dare almeno una parvenza di spontaneità narrativa al remix, non sono riuscito a mantenere integre proprio le frasi che più mi avevano colpito. Individuata una linea guida, ho lavorato quasi a forza di parole singole, cercando di ridurre al minimo l’inserimento di vocaboli estranei alla fonte. Alla fine, prevedibilmente, ho pisciato lungo, perché il testo riscritto è esattamente il doppio di quello originale. Non serve specificare che se avessi dovuto concepirlo autonomamente non ci sarei mai riuscito e che lavorare con regole autoimposte di questo tipo limita al minimo quelli che, in ossequio a un muffito idealismo duro a morire, potremmo chiamare voli pindarici, colpi di genio, illuminazioni. Scrivere a queste condizioni è come comporre un puzzle con pezzi appena riemersi da uno scavo archeologico. Però mi emoziona constatare che la nuova versione non c’entra assolutamente, assolutamente, un cazzo, con la vecchia, pur avendo in comune con lei un notevole bagaglio lessicale.

Evviva. Eccovi finalmente il testo riscritto, che ho ribattezzato Edertasun Remix perché a quanto pare  tale termine, in euskara, significa proprio bellezzaRisparmio al prodotto finito l’inutile diffidenza del corsivo sistematico. Se voleste cimentarvi voi nel giochino, con questo o altri racconti del blog, potrei pubblicare gli elaborati sulla pagina Facebook del Divano. Per il momento, silenzio in sala.

I pit stop della bellezza – Edertasun Remix

Nel bel mezzo del marciapiede, evidente ostacolo al viavai di esseri umani del venerdì pomeriggio, uno scooter parcheggiato, che però sembra abbandonato come se il motore si fosse fuso a metà strada. Non è molto sicuro, ma la posizione è strategica, proprio di fronte all’ingresso del teatro, quasi con l’intenzione di spingere i membri di quella folla anonima a cambiare direzione e prendere tempo, fiutare l’odore del luogo e poi entrare lentamente. Appena dentro, si chiede al pubblico pagante di togliersi le scarpe: quasi tutti acconsentono ma nell’atrio, senza fermarsi, sentono il bisogno di girarsi per vedere che cosa hanno intenzione di farci, con le loro scarpe. Altri guadagnano la sala a passi felpati, spinti dall’indimostrabile sospetto che i loro movimenti vengano ispezionati. Finiscono di sedersi, meccanicamente, e si apre il sipario. Sul palco, telai, motori smontati d’automobili, e sullo sfondo uno specchio che rimanda alla platea, dietro il riflesso prossimo delle macchine, una serie di teste tagliate il cui sguardo perplesso fissa l’immagine dei propri capelli. A distrarli dall’osservazione di quella distesa di acconciature poco significative, la constatazione che le calzature requisite, delle quali i più avvertono smoderatamente la mancanza, sono sistemate, in un ventaglio di direzioni opposte intorno alle macchine. E mentre da dietro le quinte appare il primo attore, in tuta da motociclista ma senza casco, con l’aria dimessa di chi ha l’unico obiettivo di non farsi notare, un signore in terza fila cerca  di ovviare alla comprensibile licenza di una crisi di riso nascondendosi dietro il vicino e sconfinando così nello spazio della sua poltroncina. L’attore si siede a uno dei telai e lo mette in azione. Una signora delle retrovie, i cui tratti delicati le conferiscono una speciale bellezza, si guarda intorno smarrita, alla ricerca di indizi sull’imperscrutabile conclusione dell’opera. Appare un secondo attore, con indosso una vestaglia da casa, e prende a provarsi metodicamente le scarpe degli spettatori, cercando di non alterarne la composizione geometrica. Dalla platea qualcuno esplode un colpo di tosse apparentemente non premeditato e il primo attore, fin lì intento a filare, stramazza al suolo come trafitto da un proiettile. Silenzio perplesso.

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