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Posts Tagged ‘vita grama’

Se durante il giorno la realtà era talmente compressa nella meccanica esecuzione della sua normalità da non lasciare margine alcuno all’alterazione (perché gli incidenti mortali e gli imprevisti più minuti erano blindati nello spartito fin dall’inizio), la notte, con la maggior parte degli attori umani travolti dal sonno, dal quale speravano di estrapolare auspici di futura ricchezza, gli permetteva di ambire a deviazioni, anche sistematiche e massicce dall’ineluttabilità dei fatti: vagheggiava che quell’aspirazione di irregolarità che aleggiava nel suo cranio durante la veglia traspirasse finalmente all’esterno, deformando la severità del reale e fornendogli, anche in modo transitorio, la consolazione del naufragio. A volte questo anelito si concretizzava fugacemente, un lampo, un crittogramma dell’inconscio in pieno giorno, quando il coprifuoco delle cose al posto loro era in pieno vigore, a ricordargli l’ipotetico favore delle tenebre. Ma, purtroppo, di notte era parte inerme di quella maggioranza che odiava, e dormiva passivamente per ripresentarsi reattivo al circolo vizioso della produttività. I numerosi tentativi di sovvertire il ciclo circadiano che aveva approntato da quando il suo malessere latente si era strutturato in quella sorta di intermittente, sfuggevole coscienza, erano tutti caduti nel vuoto, facendolo rientrare nei ranghi (in fondo alla memoria i tentativi, lui conficcato come una scheggia nelle sue circostanze terrene). Beffardamente, neanche la vita onirica pareva disposta a assecondarlo: fin dall’inizio ormai remoto dell’età adulta, i suoi sogni non si lasciavano ricordare, costringendolo a interrogarsi periodicamente su quell’adesione così supina di mente e corpo ai dettami del sonno, ristoratore e tiranno: riflessioni destituite di scopo perché prive di risultato. Eccezionalmente, una volta all’anno, o due, il ricordo di sua madre e della nonna, impegnate nella ripetizione di banali incombenze quotidiane, di solito in cucina come prima che lasciassero i vivi, sopravviveva al risveglio e riusciva a accompagnarlo, prima di sbiadire senza appello, fino alla colazione.
Un’eccezione però, tanto attraente quanto ostacolata dalle circostanze, esisteva: una volta a notte si alzava, impastato di sonno, per pisciare Approssimativamente intorno alle tre, ma in genere non guardava nemmeno la sveglia. Tale tregua durava, coerentemente, il tempo miserabile di una pisciata notturna: in qualche modo, nella precarietà della coscienza parzialmente riaccesa dall’imperativo del corpo, riusciva a rivolgere al mondo esterno uno sguardo di pura osservazione, slegato dal dovere, anche quello, performativo, della minzione, e a caricarlo di tutta la vana speranza che lo percorreva durante il giorno, un brivido sopito, di vedere la realtà comportarsi come un uovo scagliato con violenza contro un muro. Agognava, come l’unica tregua possibile, squarci nel tessuto spesso e omogeneo dei dati di fatto, e dunque, a tale scopo, per un momento di brevità irrisoria, osservava, e sperava: di scoprire che sua moglie fosse con un amante; e quindi non a letto in quel momento, ma per esempio in salotto, sul divano; o anche -perché no?- a letto con l’amante stesso mentre lui dormiva; o che ci fosse solo l’amante senza la moglie, per potersi compiacere della sua tracotanza; oppure che il cane fosse uscito dalla cuccia e avesse occupato il posto vuoto lasciato dagli altri due, solo per lo sfizio di essere dove non lo si voleva; o che la moglie e l’amante fossero in piedi davanti al latto a osservarlo e il cane apparisse unicamente per ringhiare contro di loro; o una testa di giumenta; o che il cane gli fosse attaccato al collo, scopertosi improvvisamente feroce; o che lui stesso fosse il cane, e potesse così sfuggire alla vita nel perimetro ragionevole della cuccia. O che armadio e frigorifero scambiassero posizione e contenuto (cravatte, pantaloni, tutto refrigerato, cioccolato nell’armadio a sciogliersi teatralmente, segnalando col suo sgocciolio il trascorrere di quello stato d’eccezione). O che la lavatrice girasse a vuoto, posseduta dall’idea platonica di un criceto. Che la macchina contenesse il garage. Che i lavandini, in opposizione simmetrica al cioccolato, recuperassero dal basso verso l’alto le gocce spillate durante il giorno. Che moglie e amante contassero pazienti ognuna di queste gocce. Che la casa diventasse di proprietà di altri, trasformandoli così, anche per un lasso di tempo impercettibile, in occupanti abusivi (l’amante rimaneva un intruso in ciascuno di questi scenari). E in aggiunta, mille altre cose: e che anzi tali elementi addizionali avessero la libertà di essere quanti erano veramente (tre, 15.784, svariati instabili milioni) senza doversi adeguare alle esigenze espressive di una cifra simbolica, anch’essa paradossalmente asservita ai dettami della tanto detestata praticità diurna. Ma quelle frazioni di secondo erano troppo esigue per sopportare il peso della sua aspettativa e, illuminate da una luce fioca che gli permetteva di non inciampare senza svegliare la moglie, riuscivano a contenere solo tutto ciò che era lì da prima: mentre lui, dormiente, osservava senza occhi la lavagna nera e incorrotta del sonno. E quindi, il comodino; appollaiati su di esso, gli occhiali; sulle lenti, al massimo, il segno di una ditata, considerando che la loro pulizia faceva parte della routine mattutina. Tutte queste immagini erano, va detto, vagamente sfuocate, e per la poca luce e perché gli occhiali restavano al loro posto: in fondo conosceva a memoria il breve percorso verso il cesso, e il cesso stesso. Inutilmente auspicava che tra lo stordimento del sonno e la mancata correzione delle lenti potesse scorgere qualcosa di abnorme: quello spazio era troppo perfettamente pacificato per arridere ai suoi desideri e regalargli anche solo il guizzo improvviso di uno scorpione dalla regione inesplorata sotto il letto. La luce nel bagno era invece ogni notte candida e violenta, ed era costretto a contrastare la nitida immagine di pavimento, doccia, lavandino e water, che gli si offriva immutabile, socchiudendo gli occhi. Quando scrosciava lo sciacquone, ogni speranza di deviazione dall’ordine era ormai dissolta, e la riconquista del suo posto nel letto ancora caldo era un compito ormai inerte come gli innumerevoli altri che svolgeva nell’odiosa prevedibilità del giorno. Chiudeva gli occhi e per un soffio di tempo gli balenava sotto le palpebre il ricordo del bianco dei sanitari prima che si ripresentasse davanti a lui la lavagna senza segni del sonno.

(scritto fra la fine del 2019 e gennaio 2021)

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