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Posts Tagged ‘lockdown’

La signora Dina mi chiama perché vada a prendere le verdure, ed è con animo esultante che mi aggrappo alla sua voce per interrompere il lavoro e uscire a respirare aria fresca. Siamo al limite del contrabbando, perché l’orto comune dal quale provengono si trova oltre il termine municipale, e per recuperarle, suo marito, che in quell’orto ha un piccolo appezzamento, ha violato le regole del distanziamento sociale, anche se in realtà strada facendo non ha incrociato anima viva.
Benché non ci sia spazio per veri e propri orti, in questa via abbiamo tutti cortili, giardini o cortiletti, e forse, pensandoci un attimo, in tutto il paese sono pochi e maledetti dalla sfiga quelli che non godono di tale privilegio. Quindi siamo spesso qui fuori, a mollo nell’aria, nella brezza, nella primavera, e in completa ottemperanza delle disposizioni governative. Le passeggiate, in questo inizio aprile, sono ancora prospettiva remota, ma almeno possiamo tenere d’occhio la stagione da dietro il cancello: la primavera dovrebbe apparirmi risaputa, ma mi sorprende ancora come quando da bambino cominciavo a intuire il ciclo delle stagioni sulla base delle poche ripetizioni che avevo potuto testimoniare, sufficienti per avvertirne la regolarità ma non per smorzarne la meraviglia.
Il signor Duilio, il marito della Dina, ha sempre qualcosa da sbrigare in giardino, specularmente al signor Giuseppe, che trova motivi per mantenersi indaffarato nel suo cortile all’altro lato della strada. Io sono in casa, cerco di gestire con decenza la trasformazione forzata del mio appartamento in ufficio, e li sento parlare tra i rumori delle cose che fanno: non escono quasi mai appositamente per chiacchierare, e mentre parlano spostano indefessamente oggetti nell’adempimento di mansioni che a volte mi risultano opache o superflue: è quel lavorio a creare l’occasione per la conversazione, che a sua volta rende più ameno il lavorio. Possono dedicarsi alle loro faccende in perfetta solitudine, ho visto entrambi farlo molte volte, perché quello che li porterebbe a spegnersi nel volgere di poche settimane è l’inattività, non certo un po’ di silenzio: ma hanno dimostrato, nel corso di decenni, di apprezzare la compagnia dell’altro. Dalla scrivania, anche se praticamente non sento cosa si dicono, intuisco che il ritmo dei loro dialoghi è irregolare anche perché in fondo non c’è nulla di urgente da comunicare: mi sembra di capire che entrambi guardino i telegiornali del primo mattino, quelli con la rassegna stampa, e da lì ricomincino a fare e disfare la giornate. A mattina avanzata il signor Giuseppe lascia la postazione rompendo quella loro simmetria, che in realtà è solo parziale, perché lui non ha nessuno che lo chiami a mezzogiorno, e si deve mettere su la minestra da solo. Il saluto è laconico, tanto siamo tutti qua, ora più che mai. Al tempo stesso è importante farsi vedere con regolarità perché, anche se le occasioni per contrarre il virus qui in paese sono poche, farsi prendere dalla preoccupazione in questo clima pesante è facilissimo. E poi, ovviamente, c’è il discorso dell’età. Gli uomini ci scherzano su, e ripetono spesso che l’unico al quale il virus ha cambiato veramente qualcosa sono io,  ma la Dina li sgrida, ricordando ad alta voce quello che loro hanno forse paura di ammettere. Il signor Duilio obietta allora che il virus, se è lui che vuole, deve proprio venire a cercarlo qui a casa.
Il mio ruolo in questo equilibrio si è definito molto prima dell’improvvisa apparizione dell’emergenza: sono pur sempre il nipote di mia nonna, non un compratore qualsiasi che ha occupato la casa quando lei l’ha lasciata vuota,  e per questo non sono mai stato guardato col sospetto che di solito si riserva agli sconosciuti, o peggio, agli intrusi. Al tempo stesso non mi hanno accolto come un figlio o un nipote, semplicemente perché non lo sono, così come nonna, nata circa dieci anni prima di loro, non era una sorella maggiore. Però da qui posso prendermi cura del loro passato, ascoltandone le storie tutte le volte che ne sentono la necessità, e raccogliendo i ricordi dei loro lunghi anni di vicinanza. Le particolari circostanze della quarantena mi hanno solo conferito un ruolo aggiuntivo, quello di tramite, spesso inefficace, con la burocrazia statale: per rispondere alle loro domande ho stampato modulistica in abbondanza e trascorso mezz’ore infruttuose sul sito dell’Inps in cerca di informazione specifica. Nonostante la povertà dei risultati, il solo fatto che vincano la loro ritrosia per chiedermi una mano mi porta a sorridere mentre rimbalzo vanamente da una pagina all’altra.

Ci sono limiti alla condivisione degli spazi, e anche quelli sono precedenti all’imposizione del distanziamento sociale. Ognuno parla sempre dal suo cortile: in casa del signor Giuseppe non sono mai entrato perché la strada da attraversare è quasi un abisso insondabile, mentre dai miei dirimpettai sono stato al massimo un paio di volte, sempre senza sedermi, perché la Dina aveva fatto la sfoglia, e aveva riempito di pasta ripiena vari sacchetti da freezer, ancor prima di chiedermi un parere al riguardo. Ma della casa ricordo solo la poca luce che mi pareva la attraversasse. Siamo tutti già abbastanza vicini, e in effetti non mi pare di ricordare significativi sconfinamenti del signor Duilio o del signor Giuseppe. Eppure, anche così, anche quando passo la giornata chiuso in casa a lavorare, so di non essere solo, e mi trovo a riflettere sulla catena di decisioni che mi ha fatto rimanere in paese nonostante fossi arrivato a programmare di allontanarmene drasticamente. Spostarmi a casa di nonna dopo il suo decesso non era la scelta comoda e prevedibile che poteva sembrare dall’esterno: nel giro di poche settimane ho capovolto progetti che parevano inattaccabili, e il dignitoso immobile di proprietà che avevo improvvisamente a mia disposizione era pur sempre stracolmo dei ricordi di uno degli esseri umani che più avevo amato nella vita, con quell’affetto prontissimo a trasformarsi in un ostacolo insormontabile non appena chiusa la porta alle mie spalle. Ma ora, cinque anni più tardi, da un cortile all’altro, eccomi ad affrontare circostanze ben aldilà di ogni nostra capacità di previsione, insieme a queste persone che mi hanno visto crescere senza mai muoversi dallo sfondo della mia vita. Alla fine non saremmo stati in grado di prevedere neppure questo sviluppo.
Effettivamente, di loro ho pochissimi ricordi risalenti all’infanzia, e l’immagine che ne conservo dipende principalmente da quello che mi ha trasmesso nonna coi suoi racconti. Il volto della moglie del signor Giuseppe, per esempio, l’ho dimenticato quasi completamente. Ricordo solo che una domenica mi salutava dal cancello e che quella dopo non c’era più. Quel giorno, mamma e papà mi chiesero di non fare rumore scendendo dalla macchina e mentre aspettavamo che nonna ci aprisse la porta, ma questo è tutto: a volte, quando scambio due parole col signor Giuseppe da un lato all’altro della strada, l’evanescenza dei miei ricordi di bambino, o meglio il senso di colpa ad essa connesso, mi assale senza preavviso, e per un attimo le parole mi si bloccano in gola. Fortunatamente, così come è apparsa scompare, e non ho ragioni per credere che lui abbia mai notato niente di anomalo.
Mi chiedo spesso, soprattutto quando i telegiornali della sera mi bombardano di statistiche funeste, come reagirei se succedesse la stessa cosa a uno dei tre, ma respingo immediatamente tutte le ipotesi davanti alla constatazione che, con la fase due ancora di là da venire, non potrei, non potremmo, nemmeno andare al funerale. Ritrovandoli tutti al loro posto la mattina dopo, cedo all’idea consolatoria che la situazione in fondo non mostra segni di cedimento e mi convinco che,  passata la tempesta, li attendano ancora vari anni di serenità.  Per quanto gli uomini ripetano che per loro non è cambiato quasi nulla, so benissimo che l’unica a dire la verità è la Dina: questa staticità che giorno dopo giorno ha consumato più di un mese delle nostre vite non è sovrapponibile in nessun modo alla benevola assenza di eventi che caratterizzava le nostre vite precedenti. Protetto dal cortile, posso solo restarmene qui a sorvegliare la primavera senza intuirne gli scarti improvvisi, con l’unica flebile certezza, raccolta in anni di osservazione, che prima finirà e poi tornerà. Da dentro sento il signor Duilio annunciare al signor Giuseppe che domani farà ancora bello.

(scritto fra aprile e maggio 2020, durante il primo lockdown)

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Il cellulare si è messo a vibrare, sono passate ormai due settimane da allora, e mi è arrivato questo messaggio da un numero non in memoria. Do un’occhiata all’avatar, uno scatto ravvicinato di rami in fiore con ritagli di azzurro cielo sullo sfondo, e mi dice ancora meno del numero. Con un’intimità che non sono ancora sicuro di volergli accordare, l’ignoto mi chiede se sto bene poi specifica che lui tutto ok e che in qualche modo sta continuando a lavorare in relativa sicurezza, quindi non ci si può lamentare. Ho riletto il messaggio ore più tardi, ancora incerto sul da farsi, mentre il telegiornale riversava nella stanza dati preoccupanti sulla caduta libera del Pil, e mi sono sentito fugacemente sollevato per il destino dello sconosciuto. Allora ho finamente trovato il coraggio, o forse solo la voglia?, di rispondergli qualcosa di generico pr sondare il terreno (con alcune faccine a smorzare la tensione). Ha visualizzato all’istante e nel giro di cinque secondi stava già digitando una risposta.

In realtà, da quando la generalizzazione del lockdown ha equiparato noi e il resto del paese alle prime zone rosse, di messaggi simili ne ho ricevuti parecchi, con l’unica differenza che si trattava sempre di numeri noti. Persone come Gianni non fanno testo, ci sentiamo tutte le settimane da quando ho installato Whatsapp, quasi dieci anni, e ci siamo incrociati già due volte anche al supermercato, alzando le braccia alla distanza in segno di saluto invece che di resa. No, adesso il cellulare porta nelle mie due stanzette chiuse un sacco di gente che qui non è mai entrata, perché quando ci sentivamo regolarmente abitavo nella casa vecchia, o addiritura ancora dai miei, e anzi forse non è mai entrata nemmeno là. Ma prima era facile pensarci dispersi nell’atmosfera rarefatta dei nostri paesini, ognuno indaffarato con la sua normalità, e lasciarci in pace perché tutto appariva indiscutibilmente sotto controllo. Poi certo, poteva succedere, come è successo, che a un aperitivo qualsiasi, in compagnia di Gianni, addentando un quadretto di pizza come altre cinquanta volte, un conoscente ci dicesse che Bernardi, figura remota dei tempi delle medie, la cui faccia da adulto ricordavo a malapena, era finito in ospedale con tutti e quattro gli arti in trazione dopo uno spaventoso incidente stradale: anche quando la normalità si incrinava improvvisamente, sapevo comunque che quelle eccezioni di solito prendevano dal mazzo uno di noi alla volta, scaraventandoci in un’emergenza privata che lasciava il resto del mondo intatto: forti della nostra distanza di sicurezza, fregarsene o preoccuparsene sinceramente era quasi la stessa cosa. Da tutte quelle chiacchiere col bicchiere in mano era molto più probabile che venissi a sapere di matrimoni e future gravidanze, ed è sempre molto più facile rispondere alle buone notizie. Ma adesso?
In pochi scambi di battute liquidiamo il riassunto delle puntate precedenti. In alcuni casi, anche se a pensarci bene ho contattato a mia volta altrettante persone, mi punge per un attimo il dispiacere di non essere stato io a pensare per primo a loro, ma rispondo alla convocazione, unendomi con un sorriso che non vedrà nessuno a tutte le pattuglie di ritornanti nelle quali hanno la bontà di chiamarmi.
Mi rendo conto immediatamente di avere in archivio pochissimi eventi degni di nota, pochissimi cambiamenti, o novità di ogni ordine e grado da giocarmi come agl aperitivi, e quindi mi limito soprattutto a leggere quello che raccontano gli altri. Quasi nessuno, e d’altronde non lo faccio nemmeno io quando scrivo per primo, spiega subito la vera ragione dei messaggi, il motore della curiosità che spinge a rompere un silenzio che è quasi sempre l’opzione più comoda. Lo sappiamo tutti, quell’aria rarefatta nella quale succedeva pochissimo è diventata pericolosa; e se a ridosso dell’ora di cena l’amico di ieri ti risponde con punti esclamativi e faccine, pochissime le parole, è facile immaginare che stia bene, che la sua quotidianità si sia ristretta come la tua, ma per il momento sia in grado di difendersi dagli eventi.
Ed è confortante saperlo. Anche se è improbabile che le nostre strade tornino a incrociarsi, anche se c’è un’unanime accettazione del solco che le circostanze hanno scavato tra noi, anche se perfino una videochiamata sarebbe forse un’esagerazione, il sollievo che provo nel sapere che la persona che mi scrive sta bene è sincero. Poi il dialogo prosegue, e lì le strade si biforcano: con alcuni finiamo a parlare di amici in comune, altri mi spiegano come i loro figli piccoli stiano affrontando la situazione, e sono egoisticamente felice di non essere nei loro panni. In certi casi si precipita subito nella rievocazione senza la minima volontà di uscire dal passato, segno che tradisce l’imbarazzo e lo sforzo che la rottura di quell’equilibrio del silenzio ha comportato; in altri ancora lo scambio di cortesie riguarda la salute delle famiglie, spesso persone delle quali ignoro addirittura il nome. In un caso, con un frequentatore del bar sotto casa vecchia, una chiacchierata apparentemente neutra sul calcio è degenerata in un’aspra discussione sulla riapertura del campionato, che si è interrotta bruscamente e non è stata riesumata da nessuno dei due, dando per fallito il tentativo.
L’aspetto piacevole di queste conversazioni è che le circostanze oggettive ci impediscono di indulgere nell’ipocrisia, proponendo improbabili rincontri nella vita reale, quei “magari ci becchiamo” che, so di cosa parlo, mettono a disagio anche chi li scrive nello stesso istante in cui li scrive. Sappiamo che ognuno deve stare al proprio posto, letteralmente, e questa consapevolezza fin qui ci ha spinto anche a evitare battute, a affermare con il corredo delle solite faccine che, se non ci trovassimo in questa situazione, magari avremmo potuto ribeccarci, ahahah. In un certo senso, è come se tra me e tanti altri fosse crollato un ponte che ci ha trovato su sponde diverse. La faccenda appare irreversibile, ma non ha nulla a che vedere col trauma di una separazione violenta, di un litigio, di un rancore mai sopito appena sotto la cenere, sembra soltanto normalità.

E poi c’è quel mittente sconosciuto, con il quale la conversazione è andata avanti un paio di giorni senza che riuscissi a ricordare chi era, senza che lui si presentasse esplicitamente, senza che trovassi il coraggio di chiedergli chi era, rimanendo aggrappato a una genericità spaventosa, mentre mi vergognavo della mia inspiegabile pavidità. La cosa è morta lì, e non sono riuscito a capire chi fosse nemmeno quando, alcuni giorni dopo, i rami fioriti sono spariti dall’immagine del profilo per fare spazio alla faccia normalissima di un mio grossomodo coetaneo con gli occhi chiari, vagamente stempiato. I giorni trascorrono, la conversazione si è irreversibilmente raffreddata e io ho perso un occasione per fare bella figura davanti a me stesso. Quando tutto ciò sarà finito, ricorderò nella mia pattuglia di ritornanti un milite ignoto. E se semplicemente, per qualche errore che non riesco a immaginare, avesse sbagliato numero?

(scritto fra marzo e aprile 2020 durante il primo lockdown)

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