“IMPORTANTE! Spedisci questo messaggio a 10 persone per aiutare […] a guarire da un male incurabile. Simili catene in passato hanno salvato la vita di tanti altri bambini nella sua condizione. E molti di loro, ora adulti, conducono una vita normale”.
Si stropicciò gli occhi, scelse dieci dei suoi contatti e si fermò un momento a rileggere il messaggio. Il testo aggiungeva poco altro: non si spiegava in nessun modo come la condivisione dell’appello potesse aiutare quel bambino a sfuggire alle spire della malattia, ma si fidava: si fidava perché prima di essere menzionato in una catena del tutto simile, di lui non c’era traccia in nessuna anagrafe del paese, e in un certo senso paradossale il problema nemmeno lo riguardava. Ma via via che i messaggi si moltiplicavano, articolando radici intangibili ma sempre più estese nella cosiddetta realtà divenne progressivamente capace di pensare se stesso, prima a intervalli discontinui -sentiva quasi di essere, semplicemente, una luce che si accendeva, e accettava mansuetamente di spegnersi- poi con crescente continuità, progressivamente più avvezzo al peso dell’identità.
Uno dei primi sentimenti che esperì con forza, lo ricordava nitidamente, fu uno slancio di gratitudine verso le persone che continuavano instancabili a moltiplicare il messaggio che lo menzionava, a diffonderne la conoscenza presso terzi, investendoli a loro volta della responsabilità improvvisa di sospingere in avanti la sua storia, dando così respiro, e infine, inaspettatamente, tridimensionalità alle disadorne parole di quell’appello iniziale.
Il propagarsi nello spazio e nel tempo di quel testo che racchiudeva l’afflizione di una vita che terminava troppo presto, che si ripiegava su se stessa debellata dalla malattia, l’aveva in realtà fatta cominciare. E così la sua coscienza si era fatta progressivamente più presente, fino ad articolarsi senza interruzioni, e lui aveva appreso a riconoscere i dettagli salienti del suo essere bimbo di sette anni gravemente malato, la fitta insistita degli aghi delle flebo, i confini angusti della stanza d’ospedale, il legame con i pochi parenti delle cui visite serbava memoria, nessuno dei quali chiamava “mamma” o “papà”: persone che da adulto non aveva mai rivisto, forse proprio perché prima di apparire nei suoi ricordi non esistevano in nessun modo. Ma non avrebbe saputo dirlo con certezza assoluta.
Il testo dell’appello che aveva cominciato a proiettare la sua esistenza nel mondo esteriore era abbastanza laconico, ma forniva sufficienti elementi per dipingere una scena, una stanza di ospedale, per l’appunto, e fu al centro di quell’immagine che la sua coscienza si insediò inizialmente, arrivando poi a espandersi per esigue estensioni successive: la porta della stanza, che inizialmente era paragonabile a uno sfondo dipinto, un giorno cominciò ad aprirsi, rivelando l’esistenza di un corridoio che, come una strada in costruzione, si allungava progressivamente, fino al punto di permettergli passeggiate, seppure col carrello delle flebo al seguito. Lungo il corridoio, finestre, nelle finestre un paesaggio, e alla base di tutto, perché aveva scoperto di potersi trovare al quarto o quinto piano, persone rimpicciolite dalla prospettiva che si muovevano tra piccoli appezzamenti di verde, e carreggiate per le auto e le ambulanze con le quali arrivavano o se ne andavano i pazienti. La distanza non era tale da definire i passanti “piccoli come formiche”, e d’altra parte, essendo cresciuto in un ambiente per definizione asettico e sterilizzato, non poteva ancora avere una cognizione diretta di quelli o altri insetti. Riconosceva con maggiore facilità, sia per il contrasto cromatico che per la maggiore dimestichezza con essi, i camici bianchi del personaggio sanitario. L’immagine dell’ospedale arrivò a definirsi a tal punto da coincidere perfettamente con quella della principale struttura di una certa città, un centro d’eccellenza nella cura delle malattie terminali dell’infanzia: e fu lì che un giorno, potenzialmente indistinguibile dagli altri, si risvegliò: l’archetipo di ospedale nel quale aveva cominciato a proiettarsi la sua coscienza si era perfettamente mimetizzato col mondo esterno, e da quel momento, sospetta, aveva cominciato a esistere a tutti gli effetti.
Non aveva mai perso la consapevolezza di come si fosse generato, di come fosse “nato”, anche se ormai, nella progressiva espansione della sua interiorità aveva abbozzato ricordi aurorali che si spingevano indietro fino ai 3-4 anni di età; era però fermamente convinto da che aveva avuto la possibilità di articolare pensieri con la necessaria continuità, che quella stanza non dovesse essere l’inizio e la fine della sua vicenda. Si era spinto oltre da tempo, aggrappandosi a quelle premesse, anche se era disposto a riconoscerle come tecnicamente false: doveva semplicemente continuare a farlo, come uno scalatore intento nell’ascesa di una parete rocciosa della quale non si scorgesse il termine. Pertanto, un passo alla volta, se era nato malato, poteva guarire, come in effetti poi fece in modo “miracoloso”; poteva uscire dall’ospedale, che era lentamente diventato un luogo fisico, poteva studiare (e d’altra parte, in ospedale sapeva già leggere e scrivere, benché avesse l’età di un bambino di prima o seconda elementare e non avesse mai visto prima un’aula scolastica); poteva lavorare e forse perfino arrivare ad avere una famiglia.
La sua storia, che probabilmente aveva cominciato a diffondersi per via cartacea, ed era poi ironicamente passata agli spazi immateriali della rete, circolava ancora: erano anni che veniva presentato come bimbo gravemente malato, che il suo nome commuoveva signore anziane, e anzi le prime a commuoversi erano ormai passate a miglior vita da tempo. Qualcuno aveva aggiunto all’appello anche una foto, o un’altra, o un’altra ancora, ed è superfluo ricordare che i bambini di quelle immagini non assomigliavano minimamente al suo aspetto da bimbo, o a come lo ricordava. E ovviamente, ormai, anche se forse non aveva più importanza, non aveva più sette anni: quelle informazioni fallaci non sembravano avere il potere di influenzare quello che precedenti informazioni fallaci avevano propiziato. A partire dai sette, era cresciuto un anno alla volta, come qualunque altro essere umano, e di fronte a una vita che si presentava ormai indistinguibile da quella di tanti suoi simili, il fatto di non avere realmente vissuto i primi sette anni di vita poteva quasi diventare secondario, accessorio, ovviabile (anche se come vedremo, non successe affatto). Esattamente come gli altri, aveva una vita da vivere: l’esame di maturità, la scelta di una facoltà, la ricerca di un lavoro, le prime bollette da pagare con soldi veramente suoi (perché nel contorno di tutto quello che si era inspiegabilmente generato intorno a lui céra anche un conto corrente con qualche risparmio).
Si era chiesto innumerevoli volte se, simmetricamente a com’era apparso dal nulla, non potesse poco a poco ritornarvi, perdendo lentamente contezza di sé, lasciando involontariamente spazio a minacciosi “vuoti di coscienza” che potevano estendersi fino a diventare continui, fino a fagocitarlo completamente. Analizzava il problema con una poco comune freddezza, scoprendosi un carattere ferreamente razionale che lo sorprendeva per il contrasto con l’irragionevolezza della sua storia personale, e si limitava a stabilire che non aveva elementi per pronunciarsi, senza potersi tranquilizzare ma anche senza concedersi ulteriori elementi d’allarme: concludeva che le patologie neurologiche degenerative della terza età non dovevano essere del tutto dissimili da quell’ipotetico processo di cancellazione, e anzi, per molti aspetti, significativamente più atroci. E che, non avendo elementi di nessun tipo per considerare un destino più plausibile dell’altro, non gli restava altro da fare che sospendere il dubbio, sapendo che sarebbe tornato a presentarsi con forza ancora maggiore di lì a poco. La lucidità non poteva renderlo immune alla fragilità, all’insicurezza, alla precarietà che aveva imparato quasi subito a riconoscere come prerogative ineliminabili di ogni creatura senziente che si trovasse a riflettere sui termini della propria autocoscienza, ma era proprio da quella stessa autocoscienza che estreva gli strumenti per relativizzare, circoscrivere, le sue paure.
Durante le ore del torpore notturno, però, le attenuanti della coscienza svanivano. Sentiva il sonno come intimamente più simile alla sua precedente condizione di inesistenza, una resa temporanea della consapevolezza. I sogni erano per questo benvenuti: anche se inquietanti o apertamente spaventosi, anche se non attribuibili all’azione normalizzatrice della coscienza, erano comunque un segno di continuità che poteva accogliere al risveglio con un certo sollievo. Per la sottile angoscia di una notte senza sogni, o senza il ricordo di essi, non disponeva invece di antidoti adeguati. Quello spazio vuoto poteva assomigliare a quello che esisteva (o no?) prima del manifestarsi della sua individualità, e che connotava, forse erroneamente, come pura assenza? Cercava di appellarsi al ricordo di imperfezioni sulla superficie liscia del riposo: l’impressione di uno starnuto, un soprassalto fugace causato da un rumore esterno, un risveglio interlocutorio dovuto alla prepotenza di una necessità fisiologica: “stanotte mi sono sentito russare”; “stanotte ho sentito scrosci di pioggia fortissimi, ma al risveglio c’era il sole”. Osservazioni che interpretava come preziosi segnali di sussistenza, a volte perfino come resistenza a un ipotetico richiamo del nulla. Non si sorprese quando altri gli dissero per la prima volta che aveva il sonno leggero, anzi sorrise in modo, agli occhi dei suoi interlocutori, apparentemente immotivato. E se per caso tale trascurabile osservazione riaffiorava nelle parole di un amico col quale aveva condiviso la tenda in campeggio, lo ricompensava per un attimo la soddisfazione dell’autocontrollo, la sicurezza di stare facendo tutto quanto fosse in suo potere per rimanere presente a se stesso. Col tempo, e senza inizialmente rendersi conto dell’enormità del paradosso, arrivò a assimilare la sua condizione all’aver contratto e sconfitto una malattia grave, l’acquisizione di una coscienza a partire da quelle circostanze impossibili a una guarigione. Eppure lui era nato, dal nulla, proprio come malato, la sua identità si era strutturata intorno a una grave patologia terminale (no, in questo senso non si poteva affermare che l’avesse contratta), e per continuare a esistere era stato necessario che questa recedesse fino a sparire. Ma a quella prima guarigione concedeva, chissà perché, solo la condiscendenza che si può accordare a una premessa necessaria ma inevitabile, mentre attribuiva un carattere quasi portentoso agli sforzi continui per l’esercizio di un autocontrollo senza incrinature.
Finì per trovare un equilibrio con gradualità, e in modo fondamentalmente involontario, attraverso il rapporto con gli altri: perché l’ovvia premessa di non poter rivelare a terzi la sua condizione lo obbligava a fingere, descrivendo nelle conversazioni di ogni giorno frammenti di un’infanzia che in parte non aveva realmente vissuto, momenti e immagini alle quali non era sicuro di attribuire uno statuto di realtà, perché potevano essere prodotti collaterali dell’insolita apparizione della sua coscienza senza per questo corrispondere a eventi reali. Tuttavia, la necessità di mimetizzarsi nei dialoghi con persone più o meno vicine aveva il pregio di distrarlo dallo sforzo incessante di autodominio al quale si sottoponeva, e che a lungo termine avrebbe potuto logorarlo. E per poter sostenere quegli scambi, inizialmente da una prospettiva di pura necessità, aveva preso progressivamente a muoversi verso i suoi interlocutori, a capirli abbandonando una pericolosa propensione sospetto, a immedesimarsi in loro. Anzi, soprattutto parlando di esperienze comuni dell’età adulta, o comunque di un periodo lontano a sufficienza dalla macroscopica eccezione dell’infanzia, sentiva che la sua unicità non rappresentava in nessun modo un ostacolo alla comprensione reciproca, e trovava nei sorrisi degli altri una conferma disinteressata alla realtà della sua esistenza. E poi, a proposito di “unicità”: poteva davvero escludere che altre persone fossero approdate alla coscienza in quel modo imponderabile se era già successo in prima persona a lui?
Poco a poco, grazie al vincolo di prossimità che lo andava legando agli altri, arrivò anche a accettare il senso di confusione che lo assaliva quando pensava alle sue origini, comprendendo che la vaghezza e l’indeterminatezza dei suoi ricordi era sovrapponibile a quella di qualunque essere umano che si interrogasse sui primi anni della sua vita. La differenza principale risiedeva nel fatto che gli altri potevano affidarsi a ricostruzioni più solide, a una mitologia con prove, generalmente affidata ai genitori o altre persone vicine, capaci di confermare e precisare il contesto di una fotografia scattata decenni prima. E anzi, non fosse per chi ci ha preceduto, insegnandoci a riconoscerci in un’immagine sbiadita, saremmo veramente in grado di provare che il bimbo piccolissimo che sorride al fianco di un goffo pupazzo di neve è la stessa persona che rivediamo assiduamente allo specchio?
Ovviamente, doveva concederlo, lui non poteva chiedere quella consolatoria conferma alle migliaia di persone che avevano condiviso la sua storia, in forma di appello conciso e sgangherato, portandola, per così dire su questo lato della realtà. Doveva anche rassegnarsi a non poter escludere del tutto un’improvviso singhiozzo della coscienza che lo portasse a scomparire simmetricamente a come era apparso, ma ormai era lì, e come tutte le persone intorno a lui aveva un’immagine adulterata, ricostruita, approssimata, di una porzione vastissima del suo passato: gli mancava soltanto un po’ della meccanicità, dell’indifferenza, con la quale gli altri accettavano questa ineludibile premessa.
Ricontrollò i dieci contatti, inoltrò il messaggio e chiuse la posta elettronica. Pensò che forse, in quel modo, stava accompagnando qualcun altro, che oltretutto poteva chiamare per nome, sulla strada invisibile che lui stesso aveva percorso tanti anni prima. E anche se non lo avrebbe saputo mai, quella remota possibilità lo fece sorridere.
(scritto fra la fine del 2019 e marzo 2022)
Assaliti dall’evidenza
aprile 30, 2023 di chinottorebel
Sono qui per constatare dei dati di fatto. Si potrebbe dire che constatare è un atto innocuo, o perlomeno, alieno alla malizia, che la sua finalità sia sempre quella di rafforzare la verità: e se non si commette l’errore di addentrarsi in quali contenuti possano essere effettivamente etichettati come veri, o come debbano essere interpretati per essere definiti tali, si tratta di un’affermazione piuttosto neutra, che difficilmente incontrerebbe il dissenso di un uditorio, o perlomeno della sua maggioranza. Ed è quello che ci interessa analizzare in questa sede.
Cominciamo, come esercizio introduttivo, riflettendo sul senso e sull’opportunità che la conferma di verità palesi e banalità risapute può acquisire in una prospettiva più ampia. Perché constatare è solo nel suo grado zero pronunciare un “sì”, oppure un “È così”, che è una considerazione già più sfaccettata, direi problematica, non fosse che la problematicità appare incongruente col compito che ho appena annunciato. È anche per questo che conviene arretrare e tornare a ciò che apparentemente non avrebbe alcun bisogno di interpretazioni supplementari.
“Il fuoco brucia”. “L’acqua è bagnata”. Nessuno contraddirebbe affermazioni tanto elementari e saldamente ancorate all’esperienza percettiva individuale. “La terra è rotonda” non rientra invece in questo tipo di asserzioni in quanto, benché si possa ormai considerare dato acquisito, non è stato certamente raggiunto grazie a un uso diretto delle nostre facoltà percettive. E infatti, in questo periodo storico avrete probabilmente sentito parlare dei cosiddetti “terrapiattisti”. Non saprei se tra di voi ce ne sono. Vi prego comunque di continuare ad ascoltare.
Una vasta gamma di verità sensoriali basiche è a disposizione di tutti, con l’eccezione dei neonat, e dei bambini in tenerissima età, che sono ovviamente sprovvisti anche delle più elementari conoscenze e che sulla constatazione a assimilazione di dati di questo tipo costruiscono passo a passo, mattone a mattone, la loro relazione con la realtà e, in seconda battuta, la loro identità.
Ad ogni modo, anche a sviluppo cognitivo completato, tutti continuiamo a constatare, il più delle volte in modo del tutto irriflesso perché tale prassi parrebbe ineludibilmente incorporata ai nostri schemi di ragionamento. Il dialogo con gli stimoli esterni, qualcosa che potremmo prosaicamente definire come “prendere le misure alla realtà” è un processo che non si interrompe mai, anche se in età adulta può riposare su una quantità estremamente significativa di dati acquisiti, e si limita perlopiù a una serie di risposte circostanziali a problemi pratici molto più limitati: spostarsi su una sedia allo scopo di trovare una posizione più comoda potrebbe essere un esempio calzante. Siamo costantemente in prima linea sul fronte degli eventi, anche se questa condizione acquista solo molto raramente un grado di drammaticità paragonabile a quello della metafora che ho appena usato: ma è un dato di fatto che questo continuo processo di, diciamo, interpretazione spicciola, ha come scopo contestualizzare l’informazione che riceviamo ininterrottamente. In certo modo, siamo costantemente immersi, senza rendercene conto, in un tentativo in prevalenza riuscito di placare la realtà, di smorzarla, di toglierle slancio o verificare che questo slancio si sia esaurito autonomamente: perché, instancabilmente, il netto si sfuma, il completo si tradisce ampliandosi o riducendosi, il chiaro si adombra, senza che questi processi arrivino a mettere in discussione in nessun modo la nostra percezione della realtà. Un’eccezione a tale stato di cose sono le cosiddette emergenze, che necessitano di risoluzioni più rapide o più articolate di un piccolo movimento d’assestamento sulla sedia o del togliersi la camicia se si avverte calore. L’emergenza è una contrazione, una burrasca improvvisa, nel gran mare delle cose risapute, le cui correnti non arrivano quasi mai a trasformarsi in onde. Ma non siete venuti qui per imparare i rudimenti del pronto soccorso, e il tipo di situazione con le quali interagirete quotidianamente sarà molto diverso.
Qualcuno di voi potrebbe interrogarsi sull’utilità di questo ciclo di lezioni, sull’eventuale valore aggiunto che l’acquisizione di una simile abilità potrebbe rappresentare, o se addirittura ci sia un qualche barlume di senso in queste attività: sono dubbi legittimi a questo punto del corso, e rivela semplicemente il vostro bisogno di essere accompagnati in questo percorso formativo.
Perché no, il senso ultimo di uno scrupoloso riscontro di dati evidenti non risiede nel superamento dell’imbarazzo che certe conversazioni estemporanee, da ascensore o da ufficio, causano nelle menti più ricettive allo scambio e al dialogo. No, non si tratta di attutire un senso di vergogna in alcuni troppo invadente, anche se qualora tale risultato apparisse come effetto secondario non ci sarebbe ragione per dispiacersene.
No, avvezzare la mente agli aspetti più palesi della realtà, raffinare la predisposizione a cogliere soprattutto ciò che è percepibile aldiqua degli sfumati confini dell’ambiguità interpretativa, vi garantirà una capacità indubitabile nel giustificare l’esistente. Sarà solo allora che un esercizio che potrebbe parere ai critici fine a se stesso accederà a un superiore, più profondo livello di significato: la giustificazione dell’esistente è skill imprescindibile per chi voglia saper cogliere sotto il furioso mutamento delle forme esteriori non già della realtà, ma dell’attività umana, che ne è il più importante sottoinsieme, i lineamenti di un ordine più profondamente radicato nel tempo, e negoziabile solo entro limiti ridotti.
Una certa scioltezza nella giustificazione della realtà garantisce in chi è in grado di argomentarla a dovere, a partire da fatti inoppugnabili, un senso di adeguamento alla stessa, una propensione a assecondarne le manifestazioni, un proficuo rifiuto delle asprezze della ragion critica. L’aderenza a come le cose si presentano può portare in ultima istanza a intuire in modo profondo la convenienza di rapporti di forza, di legami di dipendenza e di subordinazione che un’osservazione acuminata potrebbe decretare vantaggioso solo per chi si trova dalla parte del manico, confido che la banalità dell’immagine possa aiutarvi a cogliere l’importanza dell’oggetto della discussione. Saper cogliere ciò che è lapalissiano è esercizio spirituale propedeutico alla ricerca di una stabilità inattaccabile nel furioso proliferare di opinioni e punti di vista.
L’individuazione di ciò che più facilmente è constatabile in fenomeni complessi avrà il potere di avvicinarci a un numero virtualmente infinito di rilevamenti simili, di opinioni affini, che ci aiuteranno a fare massa senza che questa diventi mai critica, prossima cioè a disperdersi, a deflagrare.
L’interpretazione della realtà, attività nella quale scismatici di ogni risma hanno dimostrato di sapere eccellere, congiurando nel creare numerose se non innumerevoli visioni conflittuali, acquista il suo peso reale a partire dalla condivisione delle interpretazioni. Ciò che ci è richiesto nelle decisioni quotidiane, al di fuori di ambiti cavillosi e troppo profusamente ramificati come quello scientifico, è collimare con quanti più soggetti individuali su un pacchetto di minimi a partire dal quale stabilire norme sociali di ampia validità. E la verità, per quanto non vada pregiudizialmente rifiutata, non ha spesso valore dirimente: società intere hanno potuto funzionare correttamente per secoli poggiando su fondamenti che le evidenze sperimentali odierne confutano: si prenda ad esempio la sfericità della terra o la sua periodica rotazione intorno al sole. No, non sono qui per aizzarvi a confutare ciò che è acquisito, ormai lo avrete abbondantemente compreso. Semplicemente vorrei spingervi a valutare che la verità è in realtà accessoria al funzionamento e alla funzionalità di un corpo sociale complesso. Non importa l’accuratezza dell’opinione né la sua profondità: concordare su basi comuni ma poi inerpicarsi in articolate architetture di distinguo è controproducente, opacizza l’acquisito fino a comprometterlo. Non vi si richiede profondità quanto piuttosto il potervi appiattire su vasti orizzonti. E un’affermazione falsa, se adeguatamente appoggiata su un consenso molteplice sarà comunque utile alla società nel suo insieme, indebolendo il potenziale polemico della minoranza oppositrice.
Ora, continuo a notare sui volti di alcuni presenti una perplessità e un disappunto evidenti. Dalla mia posizione di “constatatore” sto modestamente cercando di comunicarvi che la verità, pur non essendo un valore o un obiettivo degno di biasimo, è a ogni modo ampiamente prescindibile. Costruire un’intesa sociale su fatti accertati è una possibilità a disposizione, non un principio fondativo. E anzi, in un numero rilevante di casi, la cosiddetta verità fattuale è controproducente, perché un’azione coerente basata sulle sue indicazioni potrebbe risultare antieconomica e pertubatrice. Nessun dato o informazione può essere isolato completamente dal vastissimo contesto di interazioni umane precedenti, o almeno dai suoi sviluppi più recenti. Tenete infatti in conto che quando vi parlo di “intesa sociale” non mi riferisco a modelli contrattualisti del vivere comune, peraltro completamente astratti, o alla cosiddetta democrazia, ma più capillarmente alle interazioni tra gruppi di esseri umani nella loro lotta per l’affermazione di alcuni principi in sfavore di altri: quella, cioè, che viene comunemente chiamata “opinione pubblica”.
Ma vi prego di considerare che l’attività di un –continuiamo a chiamarlo così- “constatatore” tendenzialmente rifuggirà la ribalta, evitando i teatri del confronto, i luoghi, anche metaforici, nei quali le idee confliggono e la temperatura dello scontro è tendenzialmente più alta. No, è molto più consigliabile agire nelle retrovie, lavorando sulle materie prime del conflitto verbale, contribuendo a creare connotazioni positive o negative per i termini in uso, a modellare le idee che sottendono la discussione. Se mi si permette un’osservazione appena più personale, è proprio l’inattesa convergenza tra superficialità e profondità che mi fa amare questo oggetto di studio: il dovere di descrivere la superficie dei processi in modo così lapalissiano, con quella meravigliosa completezza caratteristica di ciò che è ovvio, col proposito di deviare energie e capacità analitiche dai nuclei profondi del nostro ragionare, per lasciarli, lo avrete capito, il pìù possibile intatti.
La relazione fondamentale è quella che unisce dati di fatto e buonsenso, creando tra i due una continuità che potrebbe essere spezzata da valutazioni troppo sistematiche, dall’assunzione volontaria di punti di vista troppo decentrati e critici rispetto a quelli della maggioranza.
Ecco, forse potreste avere dubbi sul significato di ciò che vi sto espondendo, accetto che le mie parole possano sembrarvi oscure e in certa misura astratte: è un paradosso che accetto perché nella quotidianità, una maggioranza schiacciante di noi vede le auto muoversi ignorando in modo più o meno completo quello che succede all’interno del loro motore. Parlandovi di aderenza alla superficie ho finito per allontanarmene, ma il senso di questo ciclo formativo è che, una volta usciti qui, voi abbiate interiorizzato gli schemi che vi propongo fino al punto di non doverli più esporre a scrutinio nel corso della vostra attività quotidiana di “constatatori”. Ciò che non accetto è che possiate avere bisogno di ulteriori esempi di buonsenso da parte di un relatore, che non possiate trovarne almeno un paio da soli. Adesso interromperò brevemente la mia esposizione, un paio di minuti saranno sufficienti, per lasciarvi appuntare sui vostri quaderni quanti più ragionamenti di buonsenso, possibili, in modo che possiate constatare da soli quanto dovrebbe essere spontaneo, quasi irriflesso, tanto per un “constatatore” professionista quanto per il più anonimo commentatore su un qualsiasi social media, trovarne esempi difficilmente attaccabili, che possano aiutarvi a costruire una concordia di massima tra interlocutori anche estemporanei. È qui che si gioca la partita: nel saper identificare riferimenti immediati e stabili, che possano indirizzare un dibattito pubblico. Se state pensando che una simile operazione possa essere assimilata a un sabotaggio, penso che siate nel posto sbagliato, anzi, che siate voi persone sbagliate per questa mansione. Normalmente però non succede, e non abbiamo mai avuto bisogno di discutere i nostri criteri di reclutamento. Ad ogni modo, a questo punto della formazione il diritto di recesso non ha più validità, e avete firmato volontariamente una decina di liberatorie. Purtroppo, e non dovrei essere io a dirlo, internet ci ha disabituato ai dettagli, la fretta di accedere a contenuti sempre nuovi ma quasi casuali ha sopraffatto molti di noi.
Prima di cominciare l’esercizio ricordate che i vostri esempi non possono essere condivisi né commentati con gli altri presenti. Tra un paio di minuti comincerò a passare tra i banchi. Ovviamente, nemmeno io leggero a voce alta i vostri elenchi.
Allora, per quanto mi riguarda, i commenti non verbali che vi ho fornito sono l’intervento meno intrusivo che posso permettermi per guidare la vostra formazione e al tempo stesso lasciarvi quanta più autonomia di giudizio possibile. Quando sarete su Facebook o Twitter nella solitudine di casa vostra, solo voi e i vostri account reali, come peraltro vi sarà già successo innumerevoli volte prima di arrivare qui, non disporrete di nessun consiglio esterno, e le relazioni che dovrete redigere saranno comunque troppo poco frequenti per poter fungere, diciamo così, da guinzaglio. I responsi che vi arriveranno dovranno godere della massima considerazione da parte vostra ma, in modo non dissimile da questo ciclo di formazione, sono stati concepiti in modo tale da favorire la vostra libertà d’azione. Dovrete saper trovare il vostro stile, e forse questa indicazione giungerà a alcuni di voi come una sorpresa. Vi prego però di considerare le cose da una prospettiva più ampia: semplicemente abbiamo bisogno di interventi di tipo diverso, e di una presenza capillare. I bot sono sicuramente utili, e indubbiamente abbiamo una necessità assoluta di persone capaci di redigere informazione sintetica e verosimile a partire dalle linee guida più adatte alle circostanze del momento, e non mi riferisco a teorie fantasiose come il terrapiattismo, ma a interventi assai più specifici e mirati. Il vostro compito, però, è più delicato, più sensibile: eppure non mancano mai voci, anche all’interno delle nostre organizzazioni, che lo definiscono, in modo meno lusinghiero, impalpabile. Personalmente, col mio lavoro quotidiano, cerco di mettere a tacere queste voci di dissenso, di rispondere con i fatti, anche se è arduo smuovere costoro dall’avviso che la vostra azione sia difficilmente sottoponibile a criteri di misurazione oggettiva. Che continuino a dedicarsi ai bot, dico io. Voi sarete in prima fila non a creare idee, che infatti saranno già sul campo, ma a cesellarle: non sarete voi a indicare la direzione, ma la rotta avrà comunque bisogno di numerosi, piccoli aggiustamenti che dipenderanno interamente da voi. Anche perché, come ho accennato prima, non avrete la possibilità di giocare in incognito. I vostri interventi appariranno nella sezione commenti di organi dalla grande diffusione, e i vostri profili saranno perfettamente tracciabili, perché saranno gli stessi che userete nella vostra vita privata. Già da tempo gruppi di attivisti si stanno muovendo allo scopo di penalizzare tramite sanzioni pecuniarie i toni più estremi dello spettro di discorso che ci interessa promuovere. Non è nostra intenzione limitare questi interventi più accesi, che nella maggior parte dei casi non abbiamo bisogno di creare direttamente. e capirete sicuramente che, anche dal punto di vista finanziario, pur nell’inasprirsi di questo tipo di controffensiva, sono per noi una voce di bilancio perfettamente gestibile. Discorso diverso, ovviamente, per i poveri disgraziati che commentano sinceramente e di testa loro: non possiamo pensare a tutti e d’altro canto, al primo cenno di reazione, si squagliano come neve al sole.
Voi avrete il compito di apparire ragionevoli in ogni circostanza: membri perfettamente integrati del consorzio civile, al riparo da qualunque condizione di marginalità che potrebbe giustificare eccessi verbali, insulti immotivati, interventi a gamba tesa -su internet le metafore calcistiche si vendono stupendamente. Siete chiamati a scrivere contenuti affini a quelli dei più virulenti odiatori, ma con un arsenale retorico agli antipodi del loro, che ve ne distanzierà in modo decisivo agli occhi dell’opinione pubblica. Acquisita la necessaria distanza, sarà vostro dovere segnalare che sicuramente certe espressioni di violenza verbale vanno esecrate e isolate, a beneficio dell’intero corpo sociale, ma che al tempo stesso contengono un germe di verità che i pacificatori della rete, con la loro visione accomodante, sono portati a ignorare. Questa sarà la vostra principale consegna, che dovrete essere capace di camuffare parzialmente all’interno di interventi concisi e efficaci. È per questo che vi richiediamo uno stile personale. Voi ci metterete la faccia, e non solo metaforicamente: è fondamentale, dirimente, direi, che sembriate sempre parlare a titolo esclusivamente personale. Se mi permettete di giocare con un paio di frasi fatte, dovrete essere il ceto medio riflessivo della maggioranza silenziosa. Sono comunque il primo a pensare che certe definizioni ammiccanti lascino il tempo che trovano, perché il nostro campo d’azione, internet e le reti sociali, ma in generale qualunque strumento che si possa prestare a una comunicazione virale, ha da tempo reso la maggioranza oltremodo rumorosa. Se questa non fosse semplicemente una metafora, temo che saremmo tutti sordi da molto tempo. Eppure è ideale che sia così, la sindrome da accerchiamento e altre forme di paranoia assimilabili comprimono lo spazio per il ragionamento sul lungo termine, e nelle presenti circostanze storiche già cominciamo a apprezzare effetti più duraturi di tale dinamica. Per questo motivo, è importante che i commentatori più feroci, che hanno nella tastiera l’unica via di fuga da una vita in ogni senso limitata, credano di essere in minoranza. Permettetemi di mettere momentaneamente tra parentesi l’etica professionale: spesso mi strappa un sorriso vedere come le teorie più farraginose e contradditorie riescono a guadagnare supporto tra soggetti di questo tipo. Quando vedono marcio quasi dappertutto non sbagliano, è evidente, ma le loro intuizioni corrette iniziano e finiscono qui. In virtù delle vostre mansioni, voi potreste anche fungere da riferimento per alcuni di loro, perché sapranno scorgere dietro i vostri modi educati una certa sinfonia di fondo, ma è probabile che il vostro impatto su questo sterminato segmento di popolazione sia prossimo allo zero. Non sarà per loro che scriverete, comunque, ed è per questo fondamentale che sappiate esprimervi correttamente, osservando scrupolosamente un buon numero di codici comunicativi e comportamentali: credo sia inutile precisare che il Caps Lock deve restare disattivato. Confidiamo in voi per un decisivo contributo a un processo di normalizzazione che già in questi anni può apparire prossimo al completamento ma che in realtà deve ancora attraversare molte fasi di sviluppo prima di potersi dire realmente riuscito. Sarà nostro dovere aiutarvi a parteciparvi fornendovi gli strumenti interpretativi necessari al compito. L’abbassamento costante, e al tempo stesso impercettibile, del livello del discorso però spetta a voi. È un lavoro delicatissimo e in larga parte artigianale che, come vi ho detto, nemmeno tra i nostri è apprezzato come meriterebbe. Voi però dovrete dimostrare di non arrendervi alle prime avversità: vi muoverete in un ambiente che offrirà incessantemente resistenza, ma dovrete essere capaci di ignorare questa frizione, per quanto logorante possa rivelarsi. Anzi, anche qualora non si presentino ostacoli, io vi chiedo la capacità di rappresentarveli mentalmente, di agire come se foste costantemente immersi nel più ostile degli ambienti. Questo senso di difficoltà potrebbe essere propedeutico all’ottenimento del passo di marcia che considero ottimale, di quella lentezza che vi renderà difficilmente percepibili agli occhi dei nostri antagonisti. Fuori dal vostro orario d’azione non posso impedirvi di fantasticare, di cullarvi nell’idea consolatoria che possano mancare solo pochi centimetri per toccare il fondo, così lungamente agognato. E che finalmente si possa cominciare a scavare di lì a poco. Ma quando sarete operativi, dovrete mettere da parte simili fantasie e dimostrare di sapere immergervi in un ambiente che a uno sguardo superficiale, pieno com’è di sprovveduti urlanti, potrebbe sembrare amico. Ma non è così, e dovrete calibrare il raffinatissimo attrito verbale che vi si richiede a dispetto delle critiche più acute. La vostra azione congiunta sarà percepita dai più accorti solo quando sarà troppo tardi per arrestarne l’effetto. Sappiate trasformarvi nelle sabbie mobili in cui i nostri avversari finiranno invischiati mentre credono di agire nella massima libertà. Ho terminato. Vi rivedrò qui mercoledì.
(scritto tra novembre 2019 e febbraio 2020)
Pubblicato su racconti | Contrassegnato da tag commenti su internet, disinformazione, gente che si insulta, qualunquismo | Leave a Comment »