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“IMPORTANTE! Spedisci questo messaggio a 10 persone per aiutare […] a guarire da un male incurabile. Simili catene in passato hanno salvato la vita di tanti altri bambini nella sua condizione. E molti di loro, ora adulti, conducono una vita normale”.

Si stropicciò gli occhi, scelse dieci dei suoi contatti e si fermò un momento a rileggere il messaggio. Il testo aggiungeva poco altro: non si spiegava in nessun modo come la condivisione dell’appello potesse aiutare quel bambino a sfuggire alle spire della malattia, ma si fidava: si fidava perché prima di essere menzionato in una catena del tutto simile, di lui non c’era traccia in nessuna anagrafe del paese, e in un certo senso paradossale il problema nemmeno lo riguardava. Ma via via che i messaggi si moltiplicavano, articolando radici intangibili ma sempre più estese nella cosiddetta realtà divenne progressivamente capace di pensare se stesso, prima a intervalli discontinui -sentiva quasi di essere, semplicemente, una luce che si accendeva, e accettava mansuetamente di spegnersi- poi con crescente continuità, progressivamente più avvezzo al peso dell’identità.
Uno dei primi sentimenti che esperì con forza, lo ricordava nitidamente, fu uno slancio di gratitudine verso le persone che continuavano instancabili a moltiplicare il messaggio che lo menzionava, a diffonderne la conoscenza presso terzi, investendoli a loro volta della responsabilità improvvisa di sospingere in avanti la sua storia, dando così respiro, e infine, inaspettatamente, tridimensionalità alle disadorne parole di quell’appello iniziale.
Il propagarsi nello spazio e nel tempo di quel testo che racchiudeva l’afflizione di una vita che terminava troppo presto, che si ripiegava su se stessa debellata dalla malattia, l’aveva in realtà fatta cominciare. E così la sua coscienza si era fatta progressivamente più presente, fino ad articolarsi senza interruzioni, e lui aveva appreso a riconoscere i dettagli salienti del suo essere bimbo di sette anni gravemente malato, la fitta insistita degli aghi delle flebo, i confini angusti della stanza d’ospedale, il legame con i pochi parenti delle cui visite serbava memoria, nessuno dei quali chiamava “mamma” o “papà”: persone che da adulto non aveva mai rivisto, forse proprio perché prima di apparire nei suoi ricordi non esistevano in nessun modo. Ma non avrebbe saputo dirlo con certezza assoluta.

Il testo dell’appello che aveva cominciato a proiettare la sua esistenza nel mondo esteriore era abbastanza laconico, ma forniva sufficienti elementi per dipingere una scena, una stanza di ospedale, per l’appunto, e fu al centro di quell’immagine che la sua coscienza si insediò inizialmente, arrivando poi a espandersi per esigue estensioni successive: la porta della stanza, che inizialmente era paragonabile a uno sfondo dipinto, un giorno cominciò ad aprirsi, rivelando l’esistenza di un corridoio che, come una strada in costruzione, si allungava progressivamente, fino al punto di permettergli passeggiate, seppure col carrello delle flebo al seguito. Lungo il corridoio, finestre, nelle finestre un paesaggio, e alla base di tutto, perché aveva scoperto di potersi trovare al quarto o quinto piano, persone rimpicciolite dalla prospettiva che si muovevano tra piccoli appezzamenti di verde, e carreggiate per le auto e le ambulanze con le quali arrivavano o se ne andavano i pazienti. La distanza non era tale da definire i passanti “piccoli come formiche”, e d’altra parte, essendo cresciuto in un ambiente per definizione asettico e sterilizzato, non poteva ancora avere una cognizione diretta di quelli o altri insetti. Riconosceva con maggiore facilità, sia per il contrasto cromatico che per la maggiore dimestichezza con essi, i camici bianchi del personaggio sanitario. L’immagine dell’ospedale arrivò a definirsi a tal punto da coincidere perfettamente con quella della principale struttura di una certa città, un centro d’eccellenza nella cura delle malattie terminali dell’infanzia: e fu lì che un giorno, potenzialmente indistinguibile dagli altri, si risvegliò: l’archetipo di ospedale nel quale aveva cominciato a proiettarsi la sua coscienza si era perfettamente mimetizzato col mondo esterno, e da quel momento, sospetta, aveva cominciato a esistere a tutti gli effetti.  

Non aveva mai perso la consapevolezza di come si fosse generato, di come fosse “nato”, anche se ormai, nella progressiva espansione della sua interiorità aveva abbozzato ricordi aurorali che si spingevano indietro fino ai 3-4 anni di età; era però fermamente convinto da che aveva avuto la possibilità di articolare pensieri con la necessaria continuità, che quella stanza non dovesse essere l’inizio e la fine della sua vicenda. Si era spinto oltre da tempo, aggrappandosi a quelle premesse, anche se era disposto a riconoscerle come tecnicamente false: doveva semplicemente continuare a farlo, come uno scalatore intento nell’ascesa di una parete rocciosa della quale non si scorgesse il termine. Pertanto, un passo alla volta, se era nato malato, poteva guarire, come in effetti poi fece in modo “miracoloso”; poteva uscire dall’ospedale, che era lentamente diventato un luogo fisico, poteva studiare (e d’altra parte, in ospedale sapeva già leggere e scrivere, benché avesse l’età di un bambino di prima o seconda elementare e non avesse mai visto prima un’aula scolastica); poteva lavorare e forse perfino arrivare ad avere una famiglia.
La sua storia, che probabilmente aveva cominciato a diffondersi per via cartacea, ed era poi ironicamente passata agli spazi immateriali della rete, circolava ancora: erano anni che veniva presentato come bimbo gravemente malato, che il suo nome commuoveva signore anziane, e anzi le prime a commuoversi erano ormai passate a miglior vita da tempo. Qualcuno aveva aggiunto all’appello anche una foto, o un’altra, o un’altra ancora, ed è superfluo ricordare che i bambini di quelle immagini non assomigliavano minimamente al suo aspetto da bimbo, o a come lo ricordava. E ovviamente, ormai, anche se forse non aveva più importanza, non aveva più sette anni: quelle informazioni fallaci non sembravano avere il potere di influenzare quello che precedenti informazioni fallaci avevano propiziato. A partire dai sette, era cresciuto un anno alla volta, come qualunque altro essere umano, e di fronte a una vita che si presentava ormai indistinguibile da quella di tanti suoi simili, il fatto di non avere realmente vissuto i primi sette anni di vita poteva quasi diventare secondario, accessorio, ovviabile (anche se come vedremo, non successe affatto). Esattamente come gli altri, aveva una vita da vivere: l’esame di maturità, la scelta di una facoltà, la ricerca di un lavoro, le prime bollette da pagare con soldi veramente suoi (perché nel contorno di tutto quello che si era inspiegabilmente generato intorno a lui céra anche un conto corrente con qualche risparmio).

Si era chiesto innumerevoli volte se, simmetricamente a com’era apparso dal nulla, non potesse poco a poco ritornarvi, perdendo lentamente contezza di sé, lasciando involontariamente spazio a minacciosi “vuoti di coscienza” che potevano estendersi fino a diventare continui, fino a fagocitarlo completamente. Analizzava il problema con una poco comune freddezza, scoprendosi un carattere ferreamente razionale che lo sorprendeva per il contrasto con l’irragionevolezza della sua storia personale, e si limitava a stabilire che non aveva elementi per pronunciarsi, senza potersi tranquilizzare ma anche senza concedersi ulteriori elementi d’allarme: concludeva che le patologie neurologiche degenerative della terza età non dovevano essere del tutto dissimili da quell’ipotetico processo di cancellazione, e anzi, per molti aspetti, significativamente più atroci. E che, non avendo elementi di nessun tipo per considerare un destino più plausibile dell’altro, non gli restava altro da fare che sospendere il dubbio, sapendo che sarebbe tornato a presentarsi con forza ancora maggiore di lì a poco. La lucidità non poteva renderlo immune alla fragilità, all’insicurezza, alla precarietà che aveva imparato quasi subito a riconoscere come prerogative ineliminabili di ogni creatura senziente che si trovasse a riflettere sui termini della propria autocoscienza, ma era proprio da quella stessa autocoscienza che estreva gli strumenti per relativizzare, circoscrivere, le sue paure.

Durante le ore del torpore notturno, però, le attenuanti della coscienza svanivano. Sentiva il sonno come intimamente più simile alla sua precedente condizione di inesistenza, una resa temporanea della consapevolezza. I sogni erano per questo benvenuti: anche se inquietanti o apertamente spaventosi, anche se non attribuibili all’azione normalizzatrice della coscienza, erano comunque un segno di continuità che poteva accogliere al risveglio con un certo sollievo. Per la sottile angoscia di una notte senza sogni, o senza il ricordo di essi, non disponeva invece di antidoti adeguati. Quello spazio vuoto poteva assomigliare a quello che esisteva (o no?) prima del manifestarsi della sua individualità, e che connotava, forse erroneamente, come pura assenza? Cercava di appellarsi al ricordo di imperfezioni sulla superficie liscia del riposo: l’impressione di uno starnuto, un soprassalto fugace causato da un rumore esterno, un risveglio interlocutorio dovuto alla prepotenza di una necessità fisiologica: “stanotte mi sono sentito russare”; “stanotte ho sentito scrosci di pioggia fortissimi, ma al risveglio c’era il sole”. Osservazioni che interpretava come preziosi segnali di sussistenza, a volte perfino come resistenza a un ipotetico richiamo del nulla. Non si sorprese quando altri gli dissero per la prima volta che aveva il sonno leggero, anzi sorrise in modo, agli occhi dei suoi interlocutori, apparentemente immotivato. E se per caso tale trascurabile osservazione riaffiorava nelle parole di un amico col quale aveva condiviso la tenda in campeggio, lo ricompensava per un attimo la soddisfazione dell’autocontrollo, la sicurezza di stare facendo tutto quanto fosse in suo potere per rimanere presente a se stesso. Col tempo, e senza inizialmente rendersi conto dell’enormità del paradosso, arrivò a assimilare la sua condizione all’aver contratto e sconfitto una malattia grave, l’acquisizione di una coscienza a partire da quelle circostanze impossibili a una guarigione. Eppure lui era nato, dal nulla, proprio come malato, la sua identità si era strutturata intorno a una grave patologia terminale (no, in questo senso non si poteva affermare che l’avesse contratta), e per continuare a esistere era stato necessario che questa recedesse fino a sparire. Ma a quella prima guarigione concedeva, chissà perché, solo la condiscendenza che si può accordare a una premessa necessaria ma inevitabile, mentre attribuiva un carattere quasi portentoso agli sforzi continui per l’esercizio di un autocontrollo senza incrinature.

Finì per trovare un equilibrio con gradualità, e in modo fondamentalmente involontario, attraverso il rapporto con gli altri: perché l’ovvia premessa di non poter rivelare a terzi la sua condizione lo obbligava a fingere, descrivendo nelle conversazioni di ogni giorno frammenti di un’infanzia che in parte non aveva realmente vissuto, momenti e immagini alle quali non era sicuro di attribuire uno statuto di realtà, perché potevano essere prodotti collaterali dell’insolita apparizione della sua coscienza senza per questo corrispondere a eventi reali. Tuttavia, la necessità di mimetizzarsi nei dialoghi con persone più o meno vicine aveva il pregio di distrarlo dallo sforzo incessante di autodominio al quale si sottoponeva, e  che a lungo termine avrebbe potuto logorarlo. E per poter sostenere quegli scambi, inizialmente da una prospettiva di pura necessità, aveva preso progressivamente a muoversi verso i suoi interlocutori, a capirli abbandonando una pericolosa propensione sospetto, a immedesimarsi in loro. Anzi, soprattutto parlando di esperienze comuni dell’età adulta, o comunque di un periodo lontano a sufficienza dalla macroscopica eccezione dell’infanzia, sentiva che la sua unicità non rappresentava in nessun modo un ostacolo alla comprensione reciproca, e trovava nei sorrisi degli altri una conferma disinteressata alla realtà della sua esistenza. E poi, a proposito di “unicità”: poteva davvero escludere che altre persone fossero approdate alla coscienza in quel modo imponderabile se era già successo in prima persona a lui?
Poco a poco, grazie al vincolo di prossimità che lo andava legando agli altri, arrivò anche a accettare il senso di confusione che lo assaliva quando pensava alle sue origini, comprendendo che la vaghezza e l’indeterminatezza dei suoi ricordi era sovrapponibile a quella di qualunque essere umano che si interrogasse sui primi anni della sua vita. La differenza principale risiedeva nel fatto che gli altri potevano affidarsi a ricostruzioni più solide, a una  mitologia con prove, generalmente affidata ai genitori o altre persone vicine, capaci di confermare e precisare il contesto di una fotografia scattata decenni prima. E anzi, non fosse per chi ci ha preceduto, insegnandoci a riconoscerci in un’immagine sbiadita, saremmo veramente in grado di provare che il bimbo piccolissimo che sorride al fianco  di un goffo pupazzo di neve è la stessa persona che rivediamo assiduamente allo specchio?
Ovviamente, doveva concederlo, lui non poteva chiedere quella consolatoria conferma alle migliaia di persone che avevano condiviso la sua storia, in forma di appello conciso e sgangherato, portandola, per  così dire su questo lato della realtà. Doveva anche rassegnarsi a non poter escludere del tutto un’improvviso singhiozzo della coscienza che lo portasse a scomparire simmetricamente a come era apparso, ma ormai era lì, e come tutte le persone intorno a lui aveva un’immagine adulterata, ricostruita, approssimata, di una porzione vastissima del suo passato: gli mancava soltanto un po’ della meccanicità, dell’indifferenza, con la quale gli altri accettavano questa ineludibile premessa.

Ricontrollò i dieci contatti, inoltrò il messaggio e chiuse la posta elettronica. Pensò che forse, in quel modo, stava accompagnando qualcun altro, che oltretutto poteva chiamare per nome, sulla strada invisibile che lui stesso aveva percorso tanti anni prima. E anche se non lo avrebbe saputo mai, quella remota possibilità lo fece sorridere.

(scritto fra la fine del 2019 e marzo 2022)

Non stava cercando nulla, e quindi ancor meno se stesso, ma scorrendo pigramente le foto di uno dei profili social di quel ristorante che frequentava spesso durante i suoi viaggi di lavoro, si era scoperto sullo sfondo di uno scatto che ritraeva due ragazze sorridenti dietro ai loro piatti così belli da vedere. Quelle immagini un po’ tutte uguali, vagamente anodine, cercavano implacabilmente di affermare il concetto che lì non solo si mangiava bene, ma si trascorrevano momenti piacevoli, bene prezioso che nelle vite di troppi scarseggia. Da frequentatore abbastanza regolare qual era non poteva che parlare bene di quel ristorante, anche se in realtà avrebbe avuto ben poco da dire sull’”esperienza” che le foto provavano a raccontare, visto che mangiava in tempi sempre abbastanza ristretti, tallonato dalle ingiunzioni inflessibili della sua agenda. E in effetti, nell’immagine che aveva appena trovato senza volere, guardava di lato con fare apertamente interlocutorio, come cercando qualcosa che attirasse la sua attenzione così da ingannare l’attesa delle pietanze. Le ragazze davanti a lui, invece, occupavano coscientemente quasi tutto lo spazio dell’immagine, sapendo di essere fotografate, eppure restava un riflesso d’involontarietà nella mano vagamente sfuocata di una di loro e nella posizione sbilenca di una forchetta sul tavolo. Nonostante la data di caricamento della foto riducesse drasticamente le opzioni, non gli riuscì di rievocare le esatte circostanze di quel giorno.
Spinto dalla curiosità, prese ad esaminare decine di immagini, caricate nel corso del precedente anno e mezzo, nella speranza improvvisa di rivedersi dietro ai clienti, indifferente alle loro vite, ma disposto a fornirgli, inconsapevolmente, un contesto al quale appoggiarsi: e però, nonostante le sue visite fossero state sufficientemente numerose da giustificare la sua presenza in altri scatti, dietro a quei volti anonimi c’erano soltanto altre facce altrettanto sconosciute, e se ne dispiacque.
Esaurita infruttuosamente la pagina del ristorante, si rese conto però che avrebbe continuato la ricerca, che ritrovarsi in altre foto era diventata un’estemporanea necessità. E infatti fece mente locale nel tentativo di radunare i nomi di altre pagine, di altri locali dove capitava regolarmente, e addirittura di pub e ristoranti dove era finito per caso una o al massimo due volte, e che non aveva in previsione di tornare a visitare. Ma trovò soltanto una foto, che peraltro ricordava nitidamente, nella quale brindava insieme a cinque amici, in piedi, in primo piano, con solenne allegria, nel suo pub di fiducia, non a caso scattata dal proprietario, anche lui amico di vecchia data: e si mise a analizzarne lo sfondo, quasi desiderasse scambiarsi di posto con i clienti nelle retrovie, o ad ogni modo cercare elementi di novità in un’immagine che conosceva perfettamente e che forse non aveva mai davvero considerato nella sua interezza.
Nei giorni successivi, mentre viveva con scrupolo e attenzione la sua vita, mentre faceva quello che per corcostanze personali o sociali era arrivato a definire come dovere o piacere, non smise di pensare alla foto del ristorante, con quella che, gli parve di capire nel dipanarsi della riflessione, sentiva come una specie di nostalgia. Ma di cosa, esattamente? Non certo delle circostanze per nulla speciali di quella giornata, non del luogo, che avrebbe visitato di nuovo tra meno di due settimane, non delle ragazze in primo piano che, ne era sicuro, quel giorno non aveva nemmeno notato, e che comunque non conosceva. In quanto al lavoro, non poteva mancargli, perché non lo aveva cambiato nel frattempo, e perché comunque ce n’era sempre troppo.
Ma forse, da quell’ultima constatazione, arrivò gradualmente a sospettare che quello che gli stringeva un po’ il cuore non era la mancanza di qualcosa, quanto piuttosto la volontà assertiva di vivere frammenti della sua esistenza, o forse perfino una parte più consistente di essa, nella stessa condizione di irrilevanza che quella fotografia gli aveva casualmente assegnato. Certo, a volte poteva farlo di proposito, poteva, per esempio, trascorrere una domenica pomeriggio abbandonato sul divano con la radio sintonizzata su un programma che non gli interessava, notare improvvisamente un brandello di canzone per poi dimenticarlo immediatamente, o in alternativa finire per ignorare un podcast al quale aveva pianificato di dedicare il massimo della concentrazione. Ma no, non era esattamente la stessa cosa, perché anche in quei comportamenti indolenti c’era comunque una particella d’intenzionalità, o un minuscolo conflitto della volontà, e accontentarsi di una sua sconfitta, come appunto in un pomeriggio colonizzato dall’ozio, forse non era sufficiente.
La virtù della foto, ora lo sapeva, non consisteva nelle sue circostanze ordinarie, ma nella prospettiva, che gli regalava una genuina irrilevanza, anche se in quel momento era del tutto immedesimato nel dovere di vivere, e aveva fretta che arrivasse il cibo, e voglia che fosse buono, e bisogno di rituffarsi nei suoi impegni. Il sollievo stava tutto lì, nel notarsi ininfluente per la riuscita dello scatto, o intercambiabile con chiunque altro. E certo, in ultima analisi capiva che cercare altre sue foto parimenti interlocutorie contraddiceva quell’improvvisa libertà, ma sospettava anche che, superando il paradosso, finisse col riaffermarla con forza ancora maggiore, perché anche ammettendo che avesse trovato altre immagini, che era ragionevole pensare che non esistessero, le foto avrebbero ritratto estranei, dicendo pochissimo sulla sua vita, e mancando completamente della forza e della precisione necessari a raccontarne il senso. E in fondo, qualora fossero invece nascoste chissà dove, anche non trovare altre immagini gli lasciava il piacere di scoprirle in un secondo momento, o la vertigine di morire senza saperne nulla. Ad ogni modo, in quella foto era salvo, nonostante non lo fosse mentre veniva scattata. E avrebbe potuto esserlo altre volte, senza muovere un dito, anche se nel momento in cui veniva salvato fosse stato alle prese con un problema immane, con la noia o la malinconia. O addirittura con l’allegria. Avvertì un brivido di ubiquità.
E benché non potesse avere per la propria vita la stessa indifferenza delle due ragazze al centro della foto, probabilmente assorbite dalla preoccupazione per un accenno di occhiaie o un ciuffo di capelli riottoso, poteva avvicinarcisi un poco, beninteso senza raggiungerla, perché arrivare a quel punto sarebbe coinciso con una precisa volontà di annullamento, che in realtà non aveva. Di quella via di fuga desiderava soltanto scorgere l’inizio, per costruirvi un piccolo spazio di emancipazione dal peso dell’identità.
Pensò anche che poteva offrire una simile consolazione alle figure sullo sfondo delle sue fotografie, quelle cioè dove appariva in primo piano, quelle dov’era protagonista, e avvertì un subito slancio di generosità. Poi concluse che probabilmente nessun’altro avrebbe desiderato un simile regalo, e l’ironia di quell’osservazione lo fece sorridere.

(scritto a gennaio 2022)

Se durante il giorno la realtà era talmente compressa nella meccanica esecuzione della sua normalità da non lasciare margine alcuno all’alterazione (perché gli incidenti mortali e gli imprevisti più minuti erano blindati nello spartito fin dall’inizio), la notte, con la maggior parte degli attori umani travolti dal sonno, dal quale speravano di estrapolare auspici di futura ricchezza, gli permetteva di ambire a deviazioni, anche sistematiche e massicce dall’ineluttabilità dei fatti: vagheggiava che quell’aspirazione di irregolarità che aleggiava nel suo cranio durante la veglia traspirasse finalmente all’esterno, deformando la severità del reale e fornendogli, anche in modo transitorio, la consolazione del naufragio. A volte questo anelito si concretizzava fugacemente, un lampo, un crittogramma dell’inconscio in pieno giorno, quando il coprifuoco delle cose al posto loro era in pieno vigore, a ricordargli l’ipotetico favore delle tenebre. Ma, purtroppo, di notte era parte inerme di quella maggioranza che odiava, e dormiva passivamente per ripresentarsi reattivo al circolo vizioso della produttività. I numerosi tentativi di sovvertire il ciclo circadiano che aveva approntato da quando il suo malessere latente si era strutturato in quella sorta di intermittente, sfuggevole coscienza, erano tutti caduti nel vuoto, facendolo rientrare nei ranghi (in fondo alla memoria i tentativi, lui conficcato come una scheggia nelle sue circostanze terrene). Beffardamente, neanche la vita onirica pareva disposta a assecondarlo: fin dall’inizio ormai remoto dell’età adulta, i suoi sogni non si lasciavano ricordare, costringendolo a interrogarsi periodicamente su quell’adesione così supina di mente e corpo ai dettami del sonno, ristoratore e tiranno: riflessioni destituite di scopo perché prive di risultato. Eccezionalmente, una volta all’anno, o due, il ricordo di sua madre e della nonna, impegnate nella ripetizione di banali incombenze quotidiane, di solito in cucina come prima che lasciassero i vivi, sopravviveva al risveglio e riusciva a accompagnarlo, prima di sbiadire senza appello, fino alla colazione.
Un’eccezione però, tanto attraente quanto ostacolata dalle circostanze, esisteva: una volta a notte si alzava, impastato di sonno, per pisciare Approssimativamente intorno alle tre, ma in genere non guardava nemmeno la sveglia. Tale tregua durava, coerentemente, il tempo miserabile di una pisciata notturna: in qualche modo, nella precarietà della coscienza parzialmente riaccesa dall’imperativo del corpo, riusciva a rivolgere al mondo esterno uno sguardo di pura osservazione, slegato dal dovere, anche quello, performativo, della minzione, e a caricarlo di tutta la vana speranza che lo percorreva durante il giorno, un brivido sopito, di vedere la realtà comportarsi come un uovo scagliato con violenza contro un muro. Agognava, come l’unica tregua possibile, squarci nel tessuto spesso e omogeneo dei dati di fatto, e dunque, a tale scopo, per un momento di brevità irrisoria, osservava, e sperava: di scoprire che sua moglie fosse con un amante; e quindi non a letto in quel momento, ma per esempio in salotto, sul divano; o anche -perché no?- a letto con l’amante stesso mentre lui dormiva; o che ci fosse solo l’amante senza la moglie, per potersi compiacere della sua tracotanza; oppure che il cane fosse uscito dalla cuccia e avesse occupato il posto vuoto lasciato dagli altri due, solo per lo sfizio di essere dove non lo si voleva; o che la moglie e l’amante fossero in piedi davanti al latto a osservarlo e il cane apparisse unicamente per ringhiare contro di loro; o una testa di giumenta; o che il cane gli fosse attaccato al collo, scopertosi improvvisamente feroce; o che lui stesso fosse il cane, e potesse così sfuggire alla vita nel perimetro ragionevole della cuccia. O che armadio e frigorifero scambiassero posizione e contenuto (cravatte, pantaloni, tutto refrigerato, cioccolato nell’armadio a sciogliersi teatralmente, segnalando col suo sgocciolio il trascorrere di quello stato d’eccezione). O che la lavatrice girasse a vuoto, posseduta dall’idea platonica di un criceto. Che la macchina contenesse il garage. Che i lavandini, in opposizione simmetrica al cioccolato, recuperassero dal basso verso l’alto le gocce spillate durante il giorno. Che moglie e amante contassero pazienti ognuna di queste gocce. Che la casa diventasse di proprietà di altri, trasformandoli così, anche per un lasso di tempo impercettibile, in occupanti abusivi (l’amante rimaneva un intruso in ciascuno di questi scenari). E in aggiunta, mille altre cose: e che anzi tali elementi addizionali avessero la libertà di essere quanti erano veramente (tre, 15.784, svariati instabili milioni) senza doversi adeguare alle esigenze espressive di una cifra simbolica, anch’essa paradossalmente asservita ai dettami della tanto detestata praticità diurna. Ma quelle frazioni di secondo erano troppo esigue per sopportare il peso della sua aspettativa e, illuminate da una luce fioca che gli permetteva di non inciampare senza svegliare la moglie, riuscivano a contenere solo tutto ciò che era lì da prima: mentre lui, dormiente, osservava senza occhi la lavagna nera e incorrotta del sonno. E quindi, il comodino; appollaiati su di esso, gli occhiali; sulle lenti, al massimo, il segno di una ditata, considerando che la loro pulizia faceva parte della routine mattutina. Tutte queste immagini erano, va detto, vagamente sfuocate, e per la poca luce e perché gli occhiali restavano al loro posto: in fondo conosceva a memoria il breve percorso verso il cesso, e il cesso stesso. Inutilmente auspicava che tra lo stordimento del sonno e la mancata correzione delle lenti potesse scorgere qualcosa di abnorme: quello spazio era troppo perfettamente pacificato per arridere ai suoi desideri e regalargli anche solo il guizzo improvviso di uno scorpione dalla regione inesplorata sotto il letto. La luce nel bagno era invece ogni notte candida e violenta, ed era costretto a contrastare la nitida immagine di pavimento, doccia, lavandino e water, che gli si offriva immutabile, socchiudendo gli occhi. Quando scrosciava lo sciacquone, ogni speranza di deviazione dall’ordine era ormai dissolta, e la riconquista del suo posto nel letto ancora caldo era un compito ormai inerte come gli innumerevoli altri che svolgeva nell’odiosa prevedibilità del giorno. Chiudeva gli occhi e per un soffio di tempo gli balenava sotto le palpebre il ricordo del bianco dei sanitari prima che si ripresentasse davanti a lui la lavagna senza segni del sonno.

(scritto fra la fine del 2019 e gennaio 2021)

La signora Dina mi chiama perché vada a prendere le verdure, ed è con animo esultante che mi aggrappo alla sua voce per interrompere il lavoro e uscire a respirare aria fresca. Siamo al limite del contrabbando, perché l’orto comune dal quale provengono si trova oltre il termine municipale, e per recuperarle, suo marito, che in quell’orto ha un piccolo appezzamento, ha violato le regole del distanziamento sociale, anche se in realtà strada facendo non ha incrociato anima viva.
Benché non ci sia spazio per veri e propri orti, in questa via abbiamo tutti cortili, giardini o cortiletti, e forse, pensandoci un attimo, in tutto il paese sono pochi e maledetti dalla sfiga quelli che non godono di tale privilegio. Quindi siamo spesso qui fuori, a mollo nell’aria, nella brezza, nella primavera, e in completa ottemperanza delle disposizioni governative. Le passeggiate, in questo inizio aprile, sono ancora prospettiva remota, ma almeno possiamo tenere d’occhio la stagione da dietro il cancello: la primavera dovrebbe apparirmi risaputa, ma mi sorprende ancora come quando da bambino cominciavo a intuire il ciclo delle stagioni sulla base delle poche ripetizioni che avevo potuto testimoniare, sufficienti per avvertirne la regolarità ma non per smorzarne la meraviglia.
Il signor Duilio, il marito della Dina, ha sempre qualcosa da sbrigare in giardino, specularmente al signor Giuseppe, che trova motivi per mantenersi indaffarato nel suo cortile all’altro lato della strada. Io sono in casa, cerco di gestire con decenza la trasformazione forzata del mio appartamento in ufficio, e li sento parlare tra i rumori delle cose che fanno: non escono quasi mai appositamente per chiacchierare, e mentre parlano spostano indefessamente oggetti nell’adempimento di mansioni che a volte mi risultano opache o superflue: è quel lavorio a creare l’occasione per la conversazione, che a sua volta rende più ameno il lavorio. Possono dedicarsi alle loro faccende in perfetta solitudine, ho visto entrambi farlo molte volte, perché quello che li porterebbe a spegnersi nel volgere di poche settimane è l’inattività, non certo un po’ di silenzio: ma hanno dimostrato, nel corso di decenni, di apprezzare la compagnia dell’altro. Dalla scrivania, anche se praticamente non sento cosa si dicono, intuisco che il ritmo dei loro dialoghi è irregolare anche perché in fondo non c’è nulla di urgente da comunicare: mi sembra di capire che entrambi guardino i telegiornali del primo mattino, quelli con la rassegna stampa, e da lì ricomincino a fare e disfare la giornate. A mattina avanzata il signor Giuseppe lascia la postazione rompendo quella loro simmetria, che in realtà è solo parziale, perché lui non ha nessuno che lo chiami a mezzogiorno, e si deve mettere su la minestra da solo. Il saluto è laconico, tanto siamo tutti qua, ora più che mai. Al tempo stesso è importante farsi vedere con regolarità perché, anche se le occasioni per contrarre il virus qui in paese sono poche, farsi prendere dalla preoccupazione in questo clima pesante è facilissimo. E poi, ovviamente, c’è il discorso dell’età. Gli uomini ci scherzano su, e ripetono spesso che l’unico al quale il virus ha cambiato veramente qualcosa sono io,  ma la Dina li sgrida, ricordando ad alta voce quello che loro hanno forse paura di ammettere. Il signor Duilio obietta allora che il virus, se è lui che vuole, deve proprio venire a cercarlo qui a casa.
Il mio ruolo in questo equilibrio si è definito molto prima dell’improvvisa apparizione dell’emergenza: sono pur sempre il nipote di mia nonna, non un compratore qualsiasi che ha occupato la casa quando lei l’ha lasciata vuota,  e per questo non sono mai stato guardato col sospetto che di solito si riserva agli sconosciuti, o peggio, agli intrusi. Al tempo stesso non mi hanno accolto come un figlio o un nipote, semplicemente perché non lo sono, così come nonna, nata circa dieci anni prima di loro, non era una sorella maggiore. Però da qui posso prendermi cura del loro passato, ascoltandone le storie tutte le volte che ne sentono la necessità, e raccogliendo i ricordi dei loro lunghi anni di vicinanza. Le particolari circostanze della quarantena mi hanno solo conferito un ruolo aggiuntivo, quello di tramite, spesso inefficace, con la burocrazia statale: per rispondere alle loro domande ho stampato modulistica in abbondanza e trascorso mezz’ore infruttuose sul sito dell’Inps in cerca di informazione specifica. Nonostante la povertà dei risultati, il solo fatto che vincano la loro ritrosia per chiedermi una mano mi porta a sorridere mentre rimbalzo vanamente da una pagina all’altra.

Ci sono limiti alla condivisione degli spazi, e anche quelli sono precedenti all’imposizione del distanziamento sociale. Ognuno parla sempre dal suo cortile: in casa del signor Giuseppe non sono mai entrato perché la strada da attraversare è quasi un abisso insondabile, mentre dai miei dirimpettai sono stato al massimo un paio di volte, sempre senza sedermi, perché la Dina aveva fatto la sfoglia, e aveva riempito di pasta ripiena vari sacchetti da freezer, ancor prima di chiedermi un parere al riguardo. Ma della casa ricordo solo la poca luce che mi pareva la attraversasse. Siamo tutti già abbastanza vicini, e in effetti non mi pare di ricordare significativi sconfinamenti del signor Duilio o del signor Giuseppe. Eppure, anche così, anche quando passo la giornata chiuso in casa a lavorare, so di non essere solo, e mi trovo a riflettere sulla catena di decisioni che mi ha fatto rimanere in paese nonostante fossi arrivato a programmare di allontanarmene drasticamente. Spostarmi a casa di nonna dopo il suo decesso non era la scelta comoda e prevedibile che poteva sembrare dall’esterno: nel giro di poche settimane ho capovolto progetti che parevano inattaccabili, e il dignitoso immobile di proprietà che avevo improvvisamente a mia disposizione era pur sempre stracolmo dei ricordi di uno degli esseri umani che più avevo amato nella vita, con quell’affetto prontissimo a trasformarsi in un ostacolo insormontabile non appena chiusa la porta alle mie spalle. Ma ora, cinque anni più tardi, da un cortile all’altro, eccomi ad affrontare circostanze ben aldilà di ogni nostra capacità di previsione, insieme a queste persone che mi hanno visto crescere senza mai muoversi dallo sfondo della mia vita. Alla fine non saremmo stati in grado di prevedere neppure questo sviluppo.
Effettivamente, di loro ho pochissimi ricordi risalenti all’infanzia, e l’immagine che ne conservo dipende principalmente da quello che mi ha trasmesso nonna coi suoi racconti. Il volto della moglie del signor Giuseppe, per esempio, l’ho dimenticato quasi completamente. Ricordo solo che una domenica mi salutava dal cancello e che quella dopo non c’era più. Quel giorno, mamma e papà mi chiesero di non fare rumore scendendo dalla macchina e mentre aspettavamo che nonna ci aprisse la porta, ma questo è tutto: a volte, quando scambio due parole col signor Giuseppe da un lato all’altro della strada, l’evanescenza dei miei ricordi di bambino, o meglio il senso di colpa ad essa connesso, mi assale senza preavviso, e per un attimo le parole mi si bloccano in gola. Fortunatamente, così come è apparsa scompare, e non ho ragioni per credere che lui abbia mai notato niente di anomalo.
Mi chiedo spesso, soprattutto quando i telegiornali della sera mi bombardano di statistiche funeste, come reagirei se succedesse la stessa cosa a uno dei tre, ma respingo immediatamente tutte le ipotesi davanti alla constatazione che, con la fase due ancora di là da venire, non potrei, non potremmo, nemmeno andare al funerale. Ritrovandoli tutti al loro posto la mattina dopo, cedo all’idea consolatoria che la situazione in fondo non mostra segni di cedimento e mi convinco che,  passata la tempesta, li attendano ancora vari anni di serenità.  Per quanto gli uomini ripetano che per loro non è cambiato quasi nulla, so benissimo che l’unica a dire la verità è la Dina: questa staticità che giorno dopo giorno ha consumato più di un mese delle nostre vite non è sovrapponibile in nessun modo alla benevola assenza di eventi che caratterizzava le nostre vite precedenti. Protetto dal cortile, posso solo restarmene qui a sorvegliare la primavera senza intuirne gli scarti improvvisi, con l’unica flebile certezza, raccolta in anni di osservazione, che prima finirà e poi tornerà. Da dentro sento il signor Duilio annunciare al signor Giuseppe che domani farà ancora bello.

(scritto fra aprile e maggio 2020, durante il primo lockdown)

I ritornanti

Il cellulare si è messo a vibrare, sono passate ormai due settimane da allora, e mi è arrivato questo messaggio da un numero non in memoria. Do un’occhiata all’avatar, uno scatto ravvicinato di rami in fiore con ritagli di azzurro cielo sullo sfondo, e mi dice ancora meno del numero. Con un’intimità che non sono ancora sicuro di volergli accordare, l’ignoto mi chiede se sto bene poi specifica che lui tutto ok e che in qualche modo sta continuando a lavorare in relativa sicurezza, quindi non ci si può lamentare. Ho riletto il messaggio ore più tardi, ancora incerto sul da farsi, mentre il telegiornale riversava nella stanza dati preoccupanti sulla caduta libera del Pil, e mi sono sentito fugacemente sollevato per il destino dello sconosciuto. Allora ho finamente trovato il coraggio, o forse solo la voglia?, di rispondergli qualcosa di generico pr sondare il terreno (con alcune faccine a smorzare la tensione). Ha visualizzato all’istante e nel giro di cinque secondi stava già digitando una risposta.

In realtà, da quando la generalizzazione del lockdown ha equiparato noi e il resto del paese alle prime zone rosse, di messaggi simili ne ho ricevuti parecchi, con l’unica differenza che si trattava sempre di numeri noti. Persone come Gianni non fanno testo, ci sentiamo tutte le settimane da quando ho installato Whatsapp, quasi dieci anni, e ci siamo incrociati già due volte anche al supermercato, alzando le braccia alla distanza in segno di saluto invece che di resa. No, adesso il cellulare porta nelle mie due stanzette chiuse un sacco di gente che qui non è mai entrata, perché quando ci sentivamo regolarmente abitavo nella casa vecchia, o addiritura ancora dai miei, e anzi forse non è mai entrata nemmeno là. Ma prima era facile pensarci dispersi nell’atmosfera rarefatta dei nostri paesini, ognuno indaffarato con la sua normalità, e lasciarci in pace perché tutto appariva indiscutibilmente sotto controllo. Poi certo, poteva succedere, come è successo, che a un aperitivo qualsiasi, in compagnia di Gianni, addentando un quadretto di pizza come altre cinquanta volte, un conoscente ci dicesse che Bernardi, figura remota dei tempi delle medie, la cui faccia da adulto ricordavo a malapena, era finito in ospedale con tutti e quattro gli arti in trazione dopo uno spaventoso incidente stradale: anche quando la normalità si incrinava improvvisamente, sapevo comunque che quelle eccezioni di solito prendevano dal mazzo uno di noi alla volta, scaraventandoci in un’emergenza privata che lasciava il resto del mondo intatto: forti della nostra distanza di sicurezza, fregarsene o preoccuparsene sinceramente era quasi la stessa cosa. Da tutte quelle chiacchiere col bicchiere in mano era molto più probabile che venissi a sapere di matrimoni e future gravidanze, ed è sempre molto più facile rispondere alle buone notizie. Ma adesso?
In pochi scambi di battute liquidiamo il riassunto delle puntate precedenti. In alcuni casi, anche se a pensarci bene ho contattato a mia volta altrettante persone, mi punge per un attimo il dispiacere di non essere stato io a pensare per primo a loro, ma rispondo alla convocazione, unendomi con un sorriso che non vedrà nessuno a tutte le pattuglie di ritornanti nelle quali hanno la bontà di chiamarmi.
Mi rendo conto immediatamente di avere in archivio pochissimi eventi degni di nota, pochissimi cambiamenti, o novità di ogni ordine e grado da giocarmi come agl aperitivi, e quindi mi limito soprattutto a leggere quello che raccontano gli altri. Quasi nessuno, e d’altronde non lo faccio nemmeno io quando scrivo per primo, spiega subito la vera ragione dei messaggi, il motore della curiosità che spinge a rompere un silenzio che è quasi sempre l’opzione più comoda. Lo sappiamo tutti, quell’aria rarefatta nella quale succedeva pochissimo è diventata pericolosa; e se a ridosso dell’ora di cena l’amico di ieri ti risponde con punti esclamativi e faccine, pochissime le parole, è facile immaginare che stia bene, che la sua quotidianità si sia ristretta come la tua, ma per il momento sia in grado di difendersi dagli eventi.
Ed è confortante saperlo. Anche se è improbabile che le nostre strade tornino a incrociarsi, anche se c’è un’unanime accettazione del solco che le circostanze hanno scavato tra noi, anche se perfino una videochiamata sarebbe forse un’esagerazione, il sollievo che provo nel sapere che la persona che mi scrive sta bene è sincero. Poi il dialogo prosegue, e lì le strade si biforcano: con alcuni finiamo a parlare di amici in comune, altri mi spiegano come i loro figli piccoli stiano affrontando la situazione, e sono egoisticamente felice di non essere nei loro panni. In certi casi si precipita subito nella rievocazione senza la minima volontà di uscire dal passato, segno che tradisce l’imbarazzo e lo sforzo che la rottura di quell’equilibrio del silenzio ha comportato; in altri ancora lo scambio di cortesie riguarda la salute delle famiglie, spesso persone delle quali ignoro addirittura il nome. In un caso, con un frequentatore del bar sotto casa vecchia, una chiacchierata apparentemente neutra sul calcio è degenerata in un’aspra discussione sulla riapertura del campionato, che si è interrotta bruscamente e non è stata riesumata da nessuno dei due, dando per fallito il tentativo.
L’aspetto piacevole di queste conversazioni è che le circostanze oggettive ci impediscono di indulgere nell’ipocrisia, proponendo improbabili rincontri nella vita reale, quei “magari ci becchiamo” che, so di cosa parlo, mettono a disagio anche chi li scrive nello stesso istante in cui li scrive. Sappiamo che ognuno deve stare al proprio posto, letteralmente, e questa consapevolezza fin qui ci ha spinto anche a evitare battute, a affermare con il corredo delle solite faccine che, se non ci trovassimo in questa situazione, magari avremmo potuto ribeccarci, ahahah. In un certo senso, è come se tra me e tanti altri fosse crollato un ponte che ci ha trovato su sponde diverse. La faccenda appare irreversibile, ma non ha nulla a che vedere col trauma di una separazione violenta, di un litigio, di un rancore mai sopito appena sotto la cenere, sembra soltanto normalità.

E poi c’è quel mittente sconosciuto, con il quale la conversazione è andata avanti un paio di giorni senza che riuscissi a ricordare chi era, senza che lui si presentasse esplicitamente, senza che trovassi il coraggio di chiedergli chi era, rimanendo aggrappato a una genericità spaventosa, mentre mi vergognavo della mia inspiegabile pavidità. La cosa è morta lì, e non sono riuscito a capire chi fosse nemmeno quando, alcuni giorni dopo, i rami fioriti sono spariti dall’immagine del profilo per fare spazio alla faccia normalissima di un mio grossomodo coetaneo con gli occhi chiari, vagamente stempiato. I giorni trascorrono, la conversazione si è irreversibilmente raffreddata e io ho perso un occasione per fare bella figura davanti a me stesso. Quando tutto ciò sarà finito, ricorderò nella mia pattuglia di ritornanti un milite ignoto. E se semplicemente, per qualche errore che non riesco a immaginare, avesse sbagliato numero?

(scritto fra marzo e aprile 2020 durante il primo lockdown)

Dal pianerottolo

Lo scarico del cesso a orari diversi. Le sigle di programmi televisivi di ogni ordine e grado a volumi tendenzialmente alti. Pianti di neonati. Pianti di bambini più grandi ma comunque molto piccoli. Pianti di bambini comunque piccoli ma già in età scolare (intervallati da lamentele prevalentemente comprensibili). Trapani che squarciano laconicamente il silenzio, nello stesso punto, per molte ore consecutive. Canzoni alla radio sporcate da rumori di fondo. I campanelli, numerosi ma mai sincronizzati. Conversazioni indistinguibili. Risate. Una voce solitaria, probabilmente al telefono, che parla, presumibilmente, in un dialetto arabo. Un Nokia Tune.
E tutti questi suoni dovevano provenire dagli altri piani, perché all’epoca gli altri tre appartamenti che si affacciano sul mio stesso pianerottolo erano contemporaneamente sfitti. Una coincidenza abbastanza incredibile, e infatti quando ne parlavo con qualcuno al telefono, i miei interlocutori rispondevano tutti la stessa cosa, che era davvero pioggia sul bagnato, che si vede che era destino, neanche un vicino per dare una mano, e allora sì, mi veniva da pensare che le loro risposte, quelle no, non erano una coincidenza. Ma alla fine, viste le mie circostanze, che altro potevano dire? Quando mi sono rotto la gamba erano già tutti vuoti: senza quell’incidente la presenza o meno di vicini sul pianerottolo sarebbe stata assai meno rilevante, e mi sarei limitato a dispiacermi per alcuni volti familiari che non avrei incrociato più. E non mi sarebbero nemmeno importate le tempistiche con le quali l’agenzia immobiliare cercava e soprattutto trovava rimpiazzi: la signora dell’appartamento 1, quasi novantenne ma arzilla, era morta di vecchiaia, quella del 3, di alcuni anni più giovane era finita in ospizio e la coppia del 4, tutte queste informazioni me le aveva date il presidente dell’assemblea di condominio, si era spostata in un appartamento più grande non lontano da qui per l’arrivo imminente di una bambina. Sembravo l’unico del pianerottolo autorizzato a rimanere al suo posto anche se, essendomi rotto la gamba, con la mobilità è ridotta al lumicino, aveva più senso parlare di obbligo che di concessione. La combinazione ancora più insolita è che di quei tre appartamenti già vuoti da un po’, non se ne sia riempito nemmeno uno durante i miei tre mesi di convalescenza, e in effetti la coppia di albanesi che ha occupato l’appartamento 1, curiosamente anche lei era incinta, è arrivata quando io avevo già ripreso a camminare da un po’ e, con la dovuta lentezza, avrei potuto farmi le scale a piedi. Quella stronzissima caduta in bicicletta però mi era bastata, e continuavo a prendere l’ascensore anche se non ero più costretto a farlo. Al 4 è arrivato quel ragazzo dall’aria distinta che non ricordo come si chiama, si è pure presentato ma ho scordato il nome e, probabilmente per pigrizia, non ha ancora scritto nulla sul campanello, mentre per il 3 le cose stanno andando per le lunghe, e già in un paio d’occasioni, tornando con le buste della spesa, mi sono trovato davanti lo stesso agente immobiliare troppo abbronzato e troppo profumato con dei potenziali clienti che poi, così parrebbe, hanno gentilmente declinato. In quel periodo però, di incontri casuali come questi non ne ho fatti, un po’ perché le trattative per i tre appartamenti dovevano procedere a rilento, e un po’ perché alla fine io uscivo lo stretto indispensabile: dovevo restare a disposizione per eventuali ispezioni della mutua e comunque non avevo voglia di sfiancarmi trascinandomi a destra e a manca con le stampelle. Rimanevo quindi in casa tutto il giorno con itinerari limitatissimi: dal letto al divano, dal divano al bagno e ritorno, una capatina nella zona cucina per mettere insieme un panino e via ancora sul divano, ovviamente facendo in modo di tenere la gamba più o meno alta, appoggiata sul tavolinetto, dove lasciavo anche il libro del momento o il computer quando non ce l’avevo in grembo. Perché quello potevo fare: stordirmi su Netflix e cercare di compensare altri periodi in cui, a malincuore, non riuscivo ad aprire un libro per settimane. A volte le lettere sulla pagina o le figure sullo schermo si facevano quasi indistinguibili, notavo che fuori si era fatto buio e allora mi rendevo conto che stavo più o meno portando a casa con successo un’altra giornata di inattività forzata. Ogni tanto però dovevo dare un po’ di riposo agli occhi e allora guardavo un punto del muro o del soffitto, lo schermo nero del computer o le calamite sul frigo, oppure chiudevo direttamente gli occhi, e ascoltavo i rumori intorno a me, che si ripetevano più o meno regolarmente senza per questo perdere in varietà, e che in generale dipendevano molto anche dal momento della giornata. Alla mattina, per esempio, sigle di tele e radiogiornali, oppure di cartoni animati: preparativi per la scuola o per l’ufficio. Facilissimo immaginare caffè, biscotti, latte e cereali in ogni direzione. La sera era forse il momento più animato, prima che tutto precipitasse con una regolarità non per questo meno improvisa, in un silenzio quasi unanime, rotto solo dai rumori estemporanei che porta un risveglio indesiderato per brevi necessità fisiologiche. Immagino che poi tornassero tutti a dormire senza problemi.
Ora, benché abbia descritto più o meno dettagliatamente i suoni che potevo recepire dalla mia posizione, sarebbe erroneo credere che passassi una buona parte del mio tempo all’ascolto. È anzi vero il contrario, erano e sono i suoni a farmi visita, a folate frequenti, e a volte continuo a ignorarli benché siano praticamente già entrati per conto loro. Abitando qui, in questo spazio ridotto circondato in ogni direzione da altri spazi ridotti, in questa palazzina di mono e bilocali, è facile abdicare, senza rendersene troppo conto, a una piccolissima percentuale d’intimità, come per una specie di tassa condominiale. Ma in generale sembrerebbe vigere una solidarietà inespressa fra i condomini, basata sul pragmatico riconoscimento che le pareti sono davvero trasparenti al suono e che nessuno degli abitanti pecca di fastidioso istrionismo nell’eseguire la sua vita quotidiana: pare che tutti accettino senza problemi un po’ di musica alta il sabato a mezzogiorno, e devo fare uno sforzo d’astrazione per rendermi conto che non è così dappertutto. E allora accetto di buon grado quando ho la casa invasa di musica dal vicinato: credo di aver imparato un paio di canzoni di Liguabue a alcuni piani di distanza a forza di ripetizioni settimanali, per poi trovarmi a canticchiarle mio malgrado, a bassa voce, mentre passavo l’aspirapolvere.
E in quel periodo di immobilità forzata le cose erano esattamente identiche, salvo per il fatto che quelle lunghe ore domestiche moltiplicavano le possibilità di esposizione involontaria ai suoni del vicinato. E le visite estemporanee delle vite altrui, anche se spesso non erano altro che uno sfondo effimero ai dialoghi di una serie, mi facevano compagnia: in quel periodo l’unica persona che mi veniva a trovare con frequenza era la mia ragazza d’allora, che passava quasi tutti i giorni con un po’ di spesa.
Se ci ripenso, e ogni tanto mi capita di farlo, non saprei indicare il momento esatto in cui ho cominciato a separare quel suono dagli altri, sono propenso a credere di non averlo isolato al primo ascolto, che in effetti non riesco a ricordare: sono mancati un prima e un dopo, e forse l’ho riconosciuto solo per accumulazione alla terza o quarta occasione. Ad ogni modo: quando me ne sono reso conto, era già lì. E nemmeno saprei dire se e quando se ne è andato, come spiegherò più avanti, né calcolare quante volte si è manifestato. Ma ogni volta che mi torna in mente, sento quasi la pressione del gesso sulla gamba, perché ho l’impressione di averla avvertita soltanto durante quel lasso di tempo, senza che tra i due elementi fosse tracciabile una relazione definita.
Quella voce di donna. Orizzontale: non la sentivo scendere dai piani più alti, e neppure si arrampicava dal primo. Nitida nella modulazione e al tempo stesso inintelligibile. Sono certo di averla sentita abbandonarsi a discorsi, ma non potrei riportarne una sola parola. Discorsi che per il tono sembravano non avere né richiedere un’interlocutore. Brevi. Vorrei dire perentori, ma probabilmente sbaglierei termine perché tale sensazione si sarebbe potuta attribuire principalmente al ristabilirsi precoce di quel silenzio mai veramente assoluto che era l’atmosfera abituale del palazzo, il nostro habitat acustico consueto. Parlava, ma più spesso piangeva. Sono sicuro che a farlo fosse la stessa voce perché in un paio di circostanze ho sentito chiaramente il monologo frantumarsi d’improvviso, schiacciato da singhiozzi, che si estinguevano a loro volta improvvisamente, come un principio d’incendio tempestivamente domato. Ho un certo timore di ricostruire erroneamente i fatti, di lasciarmi guidare da risistemazioni posteriori della memoria, ma ho la sensazione, anche dopo averla identificata con chiarezza, di avere continuato a ignorarla più o meno regolarmente fino a una circostanza apparentemente casuale che descriverò a breve.

Quindi restavo in casa perché molto altro non potevo fare. E per me si trattava di una novità. Fino ad allora avevo considerato quel bilocale come una specie di ripostiglio arredato, e ci tornavo principalmente a dormire. Lo tenevo pulito con un certo scrupolo, avevo appeso alle pareti un paio di poster, qualche oggettino sulle mensole, mi ci trovavo bene, a volte ci dormivo con la mia fidanzata, ma non gli attribuivo eccessivi significati. Non era la casa dei miei sogni, non poteva esserlo e d’altronde non credo che nessuno, spingendo al massimo le sue aspirazioni possa arrivare a desiderare soltanto un bilocale. Ci tenevo le mie cose e forse nelle ore di sonno diventavo a mia volta un oggetto in più nello spazio, anche se era proprio la mia presenza a giustificare quella di tutto il resto. Lo concepivo come un punto d’appoggio, e in effetti, ore notturne a parte, mi ci fermavo davvero poco. L’incidente mi obbligò a ricadere su quello spazio con tutto il mio peso, a guardare la casa con occhi diversi, anche soltanto in virtù del fatto che avevo molto più tempo per farlo. Ovviamente fu in quel periodo che, senza trasformarsi nella reggia che non era, divenne effettivamente casa mia. I momenti di sconforto non mancavano, spesso accompagnati dal dolore fisico, ma le circostanze possono indurmi a un certo pragmatismo, e l’assenza di alternative paradossalmente contribuiva a rendere la situazione sopportabile. Pensavo ai fatti miei, e i fatti miei erano che avevo una gamba rotta, e dovevo arrangiarmi come potevo. Pensavo a quello che leggevo e che guardavo, mi ci concentravo, seguivo le trame o le argomentazioni e non perdevo tempo in pensieri aggiuntivi. Ma una sera, aprendo la porta alla mia ragazza, gettando uno sguardo involontario al nulla dietro di lei, mi ritrovai a pensare che quella voce che non era la sua, quando la sentivo, si trovava più o meno lì, davanti alla porta, e mi chiesi dove potesse essere in quel momento. Poi lei entrò e, credo di ricordare che smisi di pensarci. C’era la cena da preparare, o un’altra incombenza qualunque. Ma probabilmente, a partire da quel momento, quando le aprivo riappariva l’altra voce, così diversa dalla sua, e ripetevo quella domanda tra me e me in modo leggermente meccanico, come se stessi cercando un oggetto momentaneamente smarrito nel piccolo perimetro di casa. Dentro casa però è sempre entrata solo una voce, quella amica e conosciuta della mia fidanzata, e d’altronde lo spazio per altre presenze non abbondava. Infatti penso non fosse completamente casuale che mi venisse in mente subito prima o dopo di aprire la porta.
Amavo quelle conversazioni. Avevano il potere di spostarmi delicatamente da dove mi trovavo, cosa che riuscivano a fare anche quando non ero costretto in casa e potevo spostarmi liberamente. Era una capacità, questa, che sembrava non dipendere dalle circostanze esterne. Eppure confesso che a volte mi capitava di trascurare il senso dei discorsi, perdendomi nel suono della voce, nel modo di ridere, nella pronuncia vagamente difettosa della erre, dettagli che mi intenerivano e per i quali a volte poteva valere la pena sembrare disattento e chiedere cortesemente che per favore ripetesse l’ultima frase. Ovviamente poteva anche succedere che rimanessimo in silenzio, e i suoni che riempivano l’appartamento erano gli stessi delle mie giornate solitarie, dialoghi di serie o film, l’acqua che bolliva, che a volte dimenticavamo ritrovandola dimezzata nella pentola, e il familiare rumore ovattato della vita degli altri condomini. Ci raggomitolavamo sul divano, studiavamo una sistemazione compatibile con il mio infortunio, e lasciavamo che intorno a noi si dipanassero quei suoni mentre con gli occhi seguivamo un film.

Solo dopo avere constatato alcune volte che quella voce non era la sua, osservazione peraltro assolutamente banale, e che non sapevo dove fosse quando non la sentivo, cioè quasi tutto il tempo, cominciai a chiedermi di chi fosse. Notarne con regolarità l’assenza fu probabilmente un modo per avvicinarmi a quella domanda. Ma non avevo risposte di nessun tipo, né avevo pensato di ragionarne con qualcuno. Con la mia ragazza decisi di evitare l’argomento per il timore imprecisato di alcune conclusioni erronee che avrebbe potuto trarre dal mio interesse per la questione. A posteriori non saprei nemmeno definire di cosa si trattasse, avevo semplicemente la sensazione che l’argomento l’avrebbe irritata, e preferivo evitarle e evitarmi una seccatura. Forse, ipotizzo, avevo intuito in lei un rifiuto deciso a parlare di cose… campate per aria?, che si scontrassero con la sua visione del mondo ferreamente razionale. Non che la questione avesse alcunché di apertamente illogico, ma forse temevo che lei considerasse una simile conversazione un puro spreco di tempo. O forse il mio timore era ingiustificato e non avrei dovuto preoccuparmi tanto di contrariarla: al massimo mi avrebbe risposto che non ne aveva idea e tutto sarebbe morto lì.
Quindi a volte succedeva che mi trovassi a pensarci da solo. Avrei potuto credere che la voce appartenesse alla signora del 3 solo chiudendo un occhio su alcune evidenti forzature. Nei mesi precedenti me l’ero trovata un paio di volte davanti al portone del palazzo, con le chiavi in mano, mentre guardava fisso davanti a sé come aspettando che qualcuno le aprisse. La prima volta in perfetto silenzio, la seconda mentre biascicava parole incomprensibili. Le avevo chiesto come stava, se potevo aiutarla, e mi aveva risposto immediatamente, seguendomi docile fino all’ascensore. L’avevo salutata dicendole di non farsi scrupolo a suonare in caso di bisogno. Lei aveva annuito, e ci eravamo salutati. Poco tempo dopo, una signora del secondo mi raccontò, probabilmente spinta da un desiderio di spettegolare sincero ma scevro di perfidia, che i carabinieri avevano trovato la mia dirimpettaia in una viuzza adiacente alla vicina piazza, piantata in mezzo alla strada, con una borsa della spesa e la bicicletta buttate per terra in malo modo. A quanto mi hanno riferito, non era stata in grado di spiegare ai carabinieri perché si trovasse lì, né da quanto tempo. Non ricordava il suo indirizzo e alla richiesta di declinare le sue generalità aveva risposto con un nome sbagliato. Credo di non averla più incrociata, dopo quel secondo incontro sul portone, e la successiva decisione, presa probabilmente dai figli di sgombrare l’appartamento, non mi sorprese. La signora del secondo piano e un altra vicina non furono poi in grado di dirmi in quale casa di riposo fosse alloggiata dopo la sua partenza obbligata. Però la voce non poteva essere la sua. Quando ho cominciato a rendermene conto, lei già non c’era più, e no, anche se le pareti ne attutivano e distorcevano il suono, giurerei che quella che ho sentito parlare fosse una donna significativamente più giovane. Poteva essere sui trenta, trentacinque anni, e anche se potevo sbagliarmi ero comunque sicuro che quella non fosse la voce di una donna anziana che a maggior ragione avrei dovuto riconoscere. Alle altre donne del pianerottolo non pensai mai, e anche per loro valeva lo stesso ragionamento: le precedenti vicine se ne erano già andate, le nuove non erano ancora arrivate. Sul pianerottolo ero solo, e non aveva molto senso pensare che altre abitanti del palazzo scendessero o salire le scale per fermarsi a due passi dalla mia porta. Se in quel momento ci fossero state altre vicine avrei potuto credere di sentirle parlare da sole per una manciata di secondi prima di entrare in casa:  per quanto leggermente insolita, l’ipotesi avrebbe comunque avuto un senso.
Mi restava da concludere che le pareti fossero ancora più sottili di quello che credevo, che la mia percezione di prossimità fosse semplicemente sbagliata, e che anche molti altri suoni del palazzo provenissero da una posizione diversa. Mi sembrava assurdo, ma poco a poco mi ero assuefatto a questa ipotesi, soprattutto in mancanza di spiegazioni migliori, e quando la sentivo, di solito nel pomeriggio, anche se mi sembrava vicinissima non muovevo un dito, accettando che si trovasse su un altro piano, a un’altezza diversa, che in quelle condizioni avrei potuto raggiungere soltanto arrancando verso l’ascensore con le stampelle per poi schiacciare un tasto a caso sperando di averci azzeccato: pericoloso, avrei potuto rompermi anche l’altra gamba, e difficile da spiegare se sul pianerottolo d’arrivo avessi incontrato un qualunque abitante del palazzo.
E se avessi incontrato lei? Davo per scontato che l’avrei riconosciuta, benché non avessi la minima idea delle sue fattezze, ma non potevo immaginare come si sarebbe svolto l’incontro, anche perché tutte le parole senza eccezioni, in quella situazione, sarebbero suonate sbagliate: “cosa vuoi da me?”, per esempio, oppure “Perché piangi?”. Avrebbe avuto ragioni in abbondanza per non rendermi conto della sua presenza, e anzi, il mio comportamento era il mio comportamento a poter essere qualificiato come molestia. Quindi pensavo disordinatamente tutto ciò, supposizioni e immaginazioni mi esplodevano di colpo nel cervello, lasciandomi intontito, ma non facevo nulla, continuavo a guardare le mie serie, a preparare il mio panino, e al limite alzavo lo sguardo e sospiravo, colpendo con gli occhi un punto a caso del soffitto. Solo una volta, sentendola piangere e parlare per quello che a me sembrò un minuto buono a una distanza apparentemente ridottissima, mi alzai senza pensare e mi avviai verso la porta, che al massimo trenta secondi dopo era spalancata, col timore, finalmente, di trovarla davanti a me.
Ma il pianerottolo era vuoto, come era ragionevole attendersi. Guardavo le vecchie piastrelle risalenti agli anni settanta in una posizione buffa, con la gamba ingessata leggermente protesa in avanti, cercando di cogliere i segni eventuali di un suo passaggio, o comunque di un’attività umana che latitava da quando tutti i miei vicini se ne erano andati. E in quel momento non mi sarebbe dispiaciuto che passasse qualcuno col cane o le borse della spesa, qualcuno disposto a evitare l’ascensore perché fare le scale fa bene al cuore, ma tutto restava immutato e cominciavo a sentirmi stupido per aver cercato così all’improvviso di trovare quello che semplicemente sembrava non esserci. Rientrai in casa, e credo che inconsciamente, a partire da allora, cominciai a prestare meno attenzione ai rumori esterni allo scopo di difendermi dalla vergogna che avevo provato in quella circostanza.

Un mese dopo mi tolsero il gesso, e cominciai a frequentare quotidianamente sessioni di fisioterapia. La gamba riprendeva lentamente a ritrovare il pavimento, e il periodo sotto mutua si concluse. Ricominciai a lavorare e, nel ritrovato casino della vita quotidiana, mi stupii quasi di come il mio pianerottolo riprendesse vita all’improvviso. Intrecciavo cordiali, superficiali rapporti coi nuovi dirimpettai, scoprendo quanto mi confortasse sapere che avrei potuto disturbare qualcuno in caso di nuova estrema necessità, cosa che prima dell’incidente non avrei creduto. In quello stesso periodo assistevo senza riuscire a trovare soluzioni al deterioramento della mia relazione, e temo che anche quel fattore mi spingesse a guardare i nuovi vicini come a un’improbabile ancora di salvezza. Non saprei dire esattamente cosa avesse smesso di funzionare, e a volte guardandomi nello specchio del bagno o dell’ascensore, constatando lo sconcerto e la preoccupazione che mi riempivano gli occhi, pensavo che questa mia incapacità di individuare il problema potesse essere a sua volta il problema, che forse avevo passato quei due anni con lei credendo di capire una situazione e conoscere una persona, mentre nemmeno sospettavo la mia incapacità di spingermi oltre una valutazione superficiale dei fatti che ero comunque arrivato a credere adeguata, forse perfino acuta.
I mesi successivi furono caratterizzati da una persistente situazione di smarrimento e spesso, mentre camminavo per la strada avevo l’impressione che la gamba, benché sostanzialmente guarita, potesse cedere all’improvviso lasciandomi inerme sul marciapiede. La normalità, dopo un’interruzione forzata come quella che mi aveva interessato, si ripresenta sempre con connotati di estrema aggressività, è difficile seguirne il ritmo, e pensando in prospettiva sembra quasi impossibile che la nostra quotidianità abbia avuto esattamente quelle stesse caratteristiche con le quali sembriamo incapaci di confrontarci. È ragionevole credere che la normalità senza ripetizione smette di essere tale, e mentre mi spostavo con la sensazione irremovibile ma probabilmente erronea di zoppicare, generalmente in direzione dell’ufficio, poteva tornarmi in mente una frase casuale dal fitto di un pomeriggio di lettura col gesso appoggiato sul tavolino a ricordarmi improvvisamente quanto fossi indifeso. Erano tutte venute meno le condizioni che avevano permesso al tempo di essere provvisoriamente così denso, e mi dovevo trovare a riconoscere che certo, era quella profondità l’unica situazione qualificabile come eccezione. La percezione di essere al sicuro solo oltre il portone del palazzo ci mise circa due mesi a sparire, nonostante una volta abbia inciampato nella scalinata d’ingresso, mettendo a repentaglio mesi di terapie. Per fortuna riuscii a mantenere l’equilibrio.
A volte sul portone incontravo i nuovi vicini che avrei potuto incrociare anche sul pianerottolo, e le salutavo educatamente. Mi imbattevo anche in persone che continuavo a non conoscere come prima dell’incidente, ma che esibivano con assoluta normalità il possesso delle chiavi dell’edificio e cercavo di salutare pure queste, generalmente riuscendoci. In un paio di casi, però, sospetto di essere rimasto a squadrare per una frazione di secondo di troppo due o tre donne delle quali ignoravo nome e piano come fossi stato in urgente attesa di una rivelazione della memoria che poi non si era presentata. Loro si erano irritate come se il mio sguardo avesse cercato di frugare nelle loro teste -quando invece l’unico cranio che volevo scandagliare era il mio- mi avevano restituito uno sguardo di genuino fastidio ed erano andate per la loro strada. In ognuno di questi casi, mi ero ritrovato da solo cercando a memoria la risposta che speravo di ottenere dai loro volti, intuendo caso per caso, separatamente, senza operare collegamenti fino all’ultimo, che avevo temuto per un attimo di avere davanti a me la voce del pianerottolo. Ma nessuna delle due, o delle tre, aveva proferito parola, e non era stato possibile avvicinarsi in nessun modo a quella voce che intanto temevo di cominciare a dimenticare, quando invece era più ragionevole supporre che cercassi inconsciamente di non ricordarla.
Anche se la ricostruzione di tutte le percezioni che collegavo alla mia normalità precedente l’infortunio si stava rivelando lenta e discretamente sofferta, era un dato di fatto che non fossi più a casa a presenziare gran parte dei suoni quotidiani che avevo imparato a isolare dall’avamposto obbligatorio del divano. Quelli che continuavo a sentire al risveglio o al ritorno erano trascolorati attraverso l’abitudine nell’indifferenza, mentre gli altri erano spariti perché ero io in primo luogo a essere assente per riconoscerli. Poteva succedere che il sabato o la domenica un suono, una canzone o una voce familiare facessero capolino, facilmente riconoscibile, ma percepivo che l’alterazione di quelle circostanze originarie aveva incrinato qualcosa in quei… segnali, che ormai avevo fatto aderire alle circostanze del mio periodo d’infortunio. Ho sentito i nuovi vicini coversare tra loro sul pianerottolo, ma era quasi sempre domenica, e siccome prima non c’erano,  la mia memoria ha cominciato pazientemente a conservare le loro voci in una scatola diversa. A volte mi chiedevo oziosamente, spingendomi a pensare di prendere un giorno di ferie il martedì o il mercoledì, quanti e quali suoni di quei pomeriggi si sarebbero ripresentati cercando di ricreare condizioni il più possibile simili a quelle del periodo. Una specie di estrazione a sorte, visto che avrei dovuto rimanere a casa almeno una settimana per ritrovare segni di continuità Poi lasciavo cadere quell’idea e mi limitavo a osservare senza turbarle le circostanze della mia quotidianità presente, a ascoltarne i suoni.

(scritto fra la fine del 2019 e l’inizio di marzo del 2020)

Sono qui per constatare dei dati di fatto. Si potrebbe dire che constatare è un atto innocuo, o perlomeno, alieno alla malizia, che la sua finalità sia sempre quella di rafforzare la verità: e se non si commette l’errore di addentrarsi in quali contenuti possano essere effettivamente etichettati come veri, o come debbano essere interpretati per essere definiti tali, si tratta di un’affermazione piuttosto neutra, che difficilmente incontrerebbe il dissenso di un uditorio, o perlomeno della sua maggioranza. Ed è quello che ci interessa analizzare in questa sede.
Cominciamo, come esercizio introduttivo, riflettendo sul senso e sull’opportunità che la conferma di verità palesi e banalità risapute può acquisire in una prospettiva più ampia. Perché constatare è solo nel suo grado zero pronunciare un “sì”, oppure un “È così”, che è una considerazione già più sfaccettata, direi problematica, non fosse che la problematicità appare incongruente col compito che ho appena annunciato. È anche per questo che conviene arretrare e tornare a ciò che apparentemente non avrebbe alcun bisogno di interpretazioni supplementari.
“Il fuoco brucia”. “L’acqua è bagnata”. Nessuno contraddirebbe affermazioni tanto elementari e saldamente ancorate all’esperienza percettiva individuale. “La terra è rotonda” non rientra invece in questo tipo di asserzioni in quanto, benché si possa ormai considerare dato acquisito, non è stato certamente raggiunto grazie a un uso diretto delle nostre facoltà percettive. E infatti, in questo periodo storico avrete probabilmente sentito parlare dei cosiddetti “terrapiattisti”. Non saprei se tra di voi ce ne sono. Vi prego comunque di continuare ad ascoltare.
Una vasta gamma di verità sensoriali basiche è a disposizione di tutti, con l’eccezione dei neonat, e dei bambini in tenerissima età, che sono ovviamente sprovvisti anche delle più elementari conoscenze e che sulla constatazione a assimilazione di dati di questo tipo costruiscono passo a passo, mattone a mattone, la loro relazione con la realtà e, in seconda battuta, la loro identità.
Ad ogni modo, anche a sviluppo cognitivo completato, tutti continuiamo a constatare, il più delle volte in modo del tutto irriflesso perché tale prassi parrebbe ineludibilmente incorporata ai nostri schemi di ragionamento. Il dialogo con gli stimoli esterni, qualcosa che potremmo prosaicamente definire come “prendere le misure alla realtà” è un processo che non si interrompe mai, anche se in età adulta può riposare su una quantità estremamente significativa di dati acquisiti, e si limita perlopiù a una serie di risposte circostanziali a problemi pratici molto più limitati: spostarsi su una sedia allo scopo di trovare una posizione più comoda potrebbe essere un esempio calzante. Siamo costantemente in prima linea sul fronte degli eventi, anche se questa condizione acquista solo molto raramente un grado di drammaticità paragonabile a quello della metafora che ho appena usato: ma è un dato di fatto che questo continuo processo di, diciamo, interpretazione spicciola, ha come scopo contestualizzare l’informazione che riceviamo ininterrottamente. In certo modo, siamo costantemente immersi, senza rendercene conto, in un tentativo in prevalenza riuscito di placare la realtà, di smorzarla, di toglierle slancio o verificare che questo slancio si sia esaurito autonomamente: perché, instancabilmente, il netto si sfuma, il completo si tradisce ampliandosi o riducendosi, il chiaro si adombra, senza che questi processi arrivino a mettere in discussione in nessun modo la nostra percezione della realtà. Un’eccezione a tale stato di cose sono le cosiddette emergenze, che necessitano di risoluzioni più rapide o più articolate di un piccolo movimento d’assestamento sulla sedia o del togliersi la camicia se si avverte calore. L’emergenza è una contrazione, una burrasca improvvisa, nel gran mare delle cose risapute, le cui correnti non arrivano quasi mai a trasformarsi in onde. Ma non siete venuti qui per imparare i rudimenti del pronto soccorso, e il tipo di situazione con le quali interagirete quotidianamente sarà molto diverso.
Qualcuno di voi potrebbe interrogarsi sull’utilità di questo ciclo di lezioni, sull’eventuale valore aggiunto che l’acquisizione di una simile abilità potrebbe rappresentare, o se addirittura ci sia un qualche barlume di senso in queste attività: sono dubbi legittimi a questo punto del corso, e rivela semplicemente il vostro bisogno di essere accompagnati in questo percorso formativo.
Perché no, il senso ultimo di uno scrupoloso riscontro di dati evidenti non risiede nel superamento dell’imbarazzo che certe conversazioni estemporanee, da ascensore o da ufficio, causano nelle menti più ricettive allo scambio e al dialogo. No, non si tratta di attutire un senso di vergogna in alcuni troppo invadente, anche se qualora tale risultato apparisse come effetto secondario non ci sarebbe ragione per dispiacersene.
No, avvezzare la mente agli aspetti più palesi della realtà, raffinare la predisposizione a cogliere soprattutto ciò che è percepibile aldiqua degli sfumati confini dell’ambiguità interpretativa, vi garantirà una capacità indubitabile nel giustificare l’esistente. Sarà solo allora che un esercizio che potrebbe parere ai critici fine a se stesso accederà a un superiore, più profondo livello di significato: la giustificazione dell’esistente è skill imprescindibile per chi voglia saper cogliere sotto il furioso mutamento delle forme esteriori non già della realtà, ma dell’attività umana, che ne è il più importante sottoinsieme, i lineamenti di un ordine più profondamente radicato nel tempo, e negoziabile solo entro limiti ridotti.
Una certa scioltezza nella giustificazione della realtà garantisce in chi è in grado di argomentarla a dovere, a partire da fatti inoppugnabili, un senso di adeguamento alla stessa, una propensione a assecondarne le manifestazioni, un proficuo rifiuto delle asprezze della ragion critica. L’aderenza a come le cose si presentano può portare in ultima istanza a intuire in modo profondo la convenienza di rapporti di forza, di legami di dipendenza e di subordinazione che un’osservazione acuminata potrebbe decretare vantaggioso solo per chi si trova dalla parte del manico, confido che la banalità dell’immagine possa aiutarvi a cogliere l’importanza dell’oggetto della discussione. Saper cogliere ciò che è lapalissiano è esercizio spirituale propedeutico alla ricerca di una stabilità inattaccabile nel furioso proliferare di opinioni e punti di vista.
L’individuazione di ciò che più facilmente è constatabile in fenomeni complessi avrà il potere di avvicinarci a un numero virtualmente infinito di rilevamenti simili, di opinioni affini, che ci aiuteranno a fare massa senza che questa diventi mai critica, prossima cioè a disperdersi, a deflagrare.
L’interpretazione della realtà, attività nella quale scismatici di ogni risma hanno dimostrato di sapere eccellere, congiurando nel creare numerose se non innumerevoli visioni conflittuali, acquista il suo peso reale a partire dalla condivisione delle interpretazioni. Ciò che ci è richiesto nelle decisioni quotidiane, al di fuori di ambiti cavillosi e troppo profusamente ramificati come quello scientifico, è collimare con quanti più soggetti individuali su un pacchetto di minimi a partire dal quale stabilire norme sociali di ampia validità. E la verità, per quanto non vada pregiudizialmente rifiutata, non ha spesso valore dirimente: società intere hanno potuto funzionare correttamente per secoli poggiando su fondamenti che le evidenze sperimentali odierne confutano: si prenda ad esempio la sfericità della terra o la sua periodica rotazione intorno al sole. No, non sono qui per aizzarvi a confutare ciò che è acquisito, ormai lo avrete abbondantemente compreso. Semplicemente vorrei spingervi a valutare che la verità è in realtà accessoria al funzionamento e alla funzionalità di un corpo sociale complesso. Non importa l’accuratezza dell’opinione né la sua profondità: concordare su basi comuni ma poi inerpicarsi in articolate architetture di distinguo è controproducente, opacizza l’acquisito fino a comprometterlo. Non vi si richiede profondità quanto piuttosto il potervi appiattire su vasti orizzonti. E un’affermazione falsa, se adeguatamente appoggiata su un consenso molteplice sarà comunque utile alla società nel suo insieme, indebolendo il potenziale polemico della minoranza oppositrice.
Ora, continuo a notare sui volti di alcuni presenti una perplessità e un disappunto evidenti. Dalla mia posizione di “constatatore” sto modestamente cercando di comunicarvi che la verità, pur non essendo un valore o un obiettivo degno di biasimo, è a ogni modo ampiamente prescindibile. Costruire un’intesa sociale su fatti accertati è una possibilità a disposizione, non un principio fondativo. E anzi, in un numero rilevante di casi, la cosiddetta verità fattuale è controproducente, perché un’azione coerente basata sulle sue indicazioni potrebbe risultare antieconomica e pertubatrice. Nessun dato o informazione può essere isolato completamente dal vastissimo contesto di interazioni umane precedenti, o almeno dai suoi sviluppi più recenti. Tenete infatti in conto che quando vi parlo di “intesa sociale” non mi riferisco a modelli contrattualisti del vivere comune, peraltro completamente astratti, o alla cosiddetta democrazia,  ma più capillarmente alle interazioni tra gruppi di esseri umani nella loro lotta per l’affermazione di alcuni principi in sfavore di altri: quella, cioè, che viene comunemente chiamata “opinione pubblica”.
Ma vi prego di considerare che l’attività di un –continuiamo a chiamarlo così- “constatatore” tendenzialmente rifuggirà la ribalta, evitando i teatri del confronto, i luoghi, anche metaforici, nei quali le idee confliggono e la temperatura dello scontro è tendenzialmente più alta. No, è molto più consigliabile agire nelle retrovie, lavorando sulle materie prime del conflitto verbale, contribuendo a creare connotazioni positive o negative per i termini in uso, a modellare le idee che sottendono la discussione. Se mi si permette un’osservazione appena più personale, è proprio l’inattesa convergenza tra superficialità e profondità che mi fa amare questo oggetto di studio: il dovere di descrivere la superficie dei processi in modo così lapalissiano, con quella meravigliosa completezza caratteristica di ciò che è ovvio, col proposito di deviare energie e capacità analitiche dai nuclei profondi del nostro ragionare, per lasciarli, lo avrete capito, il pìù possibile intatti.
La relazione fondamentale è quella che unisce dati di fatto e buonsenso, creando tra i due una continuità che potrebbe essere spezzata da valutazioni troppo sistematiche, dall’assunzione volontaria di punti di vista troppo decentrati e critici rispetto a quelli della maggioranza.
Ecco, forse potreste avere dubbi sul significato di ciò che vi sto espondendo, accetto che le mie parole possano sembrarvi oscure e in certa misura astratte: è un paradosso che accetto perché nella quotidianità, una maggioranza schiacciante di noi vede le auto muoversi ignorando in modo più o meno completo quello che succede all’interno del loro motore. Parlandovi di aderenza alla superficie ho finito per allontanarmene, ma il senso di questo ciclo formativo è che, una volta usciti qui, voi abbiate interiorizzato gli schemi che vi propongo fino al punto di non doverli più esporre a scrutinio nel corso della vostra attività quotidiana di “constatatori”. Ciò che non accetto è che possiate avere bisogno di ulteriori esempi di buonsenso da parte di un relatore, che non possiate trovarne almeno un paio da soli. Adesso interromperò brevemente la mia esposizione, un paio di minuti saranno sufficienti, per lasciarvi appuntare sui vostri quaderni quanti più ragionamenti di buonsenso, possibili, in modo che possiate constatare da soli quanto dovrebbe essere spontaneo, quasi irriflesso, tanto per un “constatatore” professionista quanto per il più anonimo commentatore su un qualsiasi social media, trovarne esempi difficilmente attaccabili, che possano aiutarvi a costruire una concordia di massima tra interlocutori anche estemporanei. È qui che si gioca la partita: nel saper identificare riferimenti immediati e stabili, che possano indirizzare un dibattito pubblico. Se state pensando che una simile operazione possa essere assimilata a un sabotaggio, penso che siate nel posto sbagliato, anzi, che siate voi persone sbagliate per questa mansione. Normalmente però non succede, e non abbiamo mai avuto bisogno di discutere i nostri criteri di reclutamento. Ad ogni modo, a questo punto della formazione il diritto di recesso non ha più validità, e avete firmato volontariamente una decina di liberatorie. Purtroppo, e non dovrei essere io a dirlo, internet ci ha disabituato ai dettagli, la fretta di accedere a contenuti sempre nuovi ma quasi casuali ha sopraffatto molti di noi.
Prima di cominciare l’esercizio ricordate che i vostri esempi non possono essere condivisi né commentati con gli altri presenti. Tra un paio di minuti comincerò a passare tra i banchi. Ovviamente, nemmeno io leggero a voce alta i vostri elenchi.

Allora, per quanto mi riguarda, i commenti non verbali che vi ho fornito sono l’intervento meno intrusivo che posso permettermi per guidare la vostra formazione e al tempo stesso lasciarvi quanta più autonomia di giudizio possibile. Quando sarete su Facebook o Twitter nella solitudine di casa vostra, solo voi e i vostri account reali, come peraltro vi sarà già successo innumerevoli volte prima di arrivare qui, non disporrete di nessun consiglio esterno, e le relazioni che dovrete redigere saranno comunque troppo poco frequenti per poter fungere, diciamo così, da guinzaglio. I responsi che vi arriveranno dovranno godere della massima considerazione da parte vostra ma, in modo non dissimile da questo ciclo di formazione, sono stati concepiti in modo tale da favorire la vostra libertà d’azione. Dovrete saper trovare il vostro stile, e forse questa indicazione giungerà a alcuni di voi come una sorpresa. Vi prego però di considerare le cose da una prospettiva più ampia: semplicemente abbiamo bisogno di interventi di tipo diverso, e di una presenza capillare. I bot sono sicuramente utili, e indubbiamente abbiamo una necessità assoluta di persone capaci di redigere informazione sintetica e verosimile a partire dalle linee guida più adatte alle circostanze del momento, e non mi riferisco a teorie fantasiose come il terrapiattismo, ma a interventi assai più specifici e mirati. Il vostro compito, però, è più delicato, più sensibile: eppure non mancano mai voci, anche all’interno delle nostre organizzazioni, che lo definiscono, in modo meno lusinghiero, impalpabile. Personalmente, col mio lavoro quotidiano, cerco di mettere a tacere queste voci di dissenso, di rispondere con i fatti, anche se è arduo smuovere costoro dall’avviso che la vostra azione sia difficilmente sottoponibile a criteri di misurazione oggettiva. Che continuino a dedicarsi ai bot, dico io. Voi sarete in prima fila non a creare idee, che infatti saranno già sul campo, ma a cesellarle: non sarete voi a indicare la direzione, ma la rotta avrà comunque bisogno di numerosi, piccoli aggiustamenti che dipenderanno interamente da voi. Anche perché, come ho accennato prima, non avrete la possibilità di giocare in incognito. I vostri interventi appariranno nella sezione commenti di organi dalla grande diffusione, e i vostri profili saranno perfettamente tracciabili, perché saranno gli stessi che userete nella vostra vita privata. Già da tempo gruppi di attivisti si stanno muovendo allo scopo di penalizzare tramite sanzioni pecuniarie i toni più estremi dello spettro di discorso che ci interessa promuovere. Non è nostra intenzione limitare questi interventi più accesi, che nella maggior parte dei casi non abbiamo bisogno di creare direttamente. e capirete sicuramente che, anche dal punto di vista finanziario, pur nell’inasprirsi di questo tipo di controffensiva, sono per noi una voce di bilancio perfettamente gestibile. Discorso diverso, ovviamente, per i poveri disgraziati che commentano sinceramente e di testa loro: non possiamo pensare a tutti e d’altro canto, al primo cenno di reazione, si squagliano come neve al sole.
Voi avrete il compito di apparire ragionevoli in ogni circostanza: membri perfettamente integrati del consorzio civile, al riparo da qualunque condizione di marginalità che potrebbe giustificare eccessi verbali, insulti immotivati, interventi a gamba tesa -su internet le metafore calcistiche si vendono stupendamente. Siete chiamati a scrivere contenuti affini a quelli dei più virulenti odiatori, ma con un arsenale retorico agli antipodi del loro, che ve ne distanzierà in modo decisivo agli occhi dell’opinione pubblica. Acquisita la necessaria distanza, sarà vostro dovere segnalare che sicuramente certe espressioni di violenza verbale vanno esecrate e isolate, a beneficio dell’intero corpo sociale, ma che al tempo stesso contengono un germe di verità che i pacificatori della rete, con la loro visione accomodante, sono portati a ignorare. Questa sarà la vostra principale consegna, che dovrete essere capace di camuffare parzialmente all’interno di interventi concisi e efficaci. È per questo che vi richiediamo uno stile personale. Voi ci metterete la faccia, e non solo metaforicamente: è fondamentale, dirimente, direi, che sembriate sempre parlare a titolo esclusivamente personale. Se mi permettete di giocare con un paio di frasi fatte, dovrete essere il ceto medio riflessivo della maggioranza silenziosa. Sono comunque il primo a pensare che certe definizioni ammiccanti lascino il tempo che trovano, perché il nostro campo d’azione, internet e le reti sociali, ma in generale qualunque strumento che si possa prestare a una comunicazione virale, ha da tempo reso la maggioranza oltremodo rumorosa. Se questa non fosse semplicemente una metafora, temo che saremmo tutti sordi da molto tempo. Eppure è ideale che sia così, la sindrome da accerchiamento e altre forme di paranoia assimilabili comprimono lo spazio per il ragionamento sul lungo termine, e nelle presenti circostanze storiche già cominciamo a apprezzare effetti più duraturi di tale dinamica. Per questo motivo, è importante che i commentatori più feroci, che hanno nella tastiera l’unica via di fuga da una vita in ogni senso limitata, credano di essere in minoranza. Permettetemi di mettere momentaneamente tra parentesi l’etica professionale: spesso mi strappa un sorriso vedere come le teorie più farraginose e contradditorie riescono a guadagnare supporto tra soggetti di questo tipo. Quando vedono marcio quasi dappertutto non sbagliano, è evidente, ma le loro intuizioni corrette iniziano e finiscono qui. In virtù delle vostre mansioni, voi potreste anche fungere da riferimento per alcuni di loro, perché sapranno scorgere dietro i vostri modi educati una certa sinfonia di fondo, ma è probabile che il vostro impatto su questo sterminato segmento di popolazione sia prossimo allo zero. Non sarà per loro che scriverete, comunque, ed è per questo fondamentale che sappiate esprimervi correttamente, osservando scrupolosamente un buon numero di codici comunicativi e comportamentali: credo sia inutile precisare che il Caps Lock deve restare disattivato. Confidiamo in voi per un decisivo contributo a un processo di normalizzazione che già in questi anni può apparire prossimo al completamento ma che in realtà deve ancora attraversare molte fasi di sviluppo prima di potersi dire realmente riuscito. Sarà nostro dovere aiutarvi a parteciparvi fornendovi gli strumenti interpretativi necessari al compito. L’abbassamento costante, e al tempo stesso impercettibile, del livello del discorso però spetta a voi. È un lavoro delicatissimo e in larga parte artigianale che, come vi ho detto, nemmeno tra i nostri è apprezzato come meriterebbe. Voi però dovrete dimostrare di non arrendervi alle prime avversità: vi muoverete in un ambiente che offrirà incessantemente resistenza, ma dovrete essere capaci di ignorare questa frizione, per quanto logorante possa rivelarsi. Anzi, anche qualora non si presentino ostacoli, io vi chiedo la capacità di rappresentarveli mentalmente, di agire come se foste costantemente immersi nel più ostile degli ambienti. Questo senso di difficoltà potrebbe essere propedeutico all’ottenimento del passo di marcia che considero ottimale, di quella lentezza che vi renderà difficilmente percepibili agli occhi dei nostri antagonisti. Fuori dal vostro orario d’azione non posso impedirvi di fantasticare, di cullarvi nell’idea consolatoria che possano mancare solo pochi centimetri per toccare il fondo, così lungamente agognato. E che finalmente si possa cominciare a scavare di lì a poco. Ma quando sarete operativi, dovrete mettere da parte simili fantasie e dimostrare di sapere immergervi in un ambiente che a uno sguardo superficiale, pieno com’è di sprovveduti urlanti, potrebbe sembrare amico. Ma non è così, e dovrete calibrare il raffinatissimo attrito verbale che vi si richiede a dispetto delle critiche più acute. La vostra azione congiunta sarà percepita dai più accorti solo quando sarà troppo tardi per arrestarne l’effetto. Sappiate trasformarvi nelle sabbie mobili in cui i nostri avversari finiranno invischiati mentre credono di agire nella massima libertà. Ho terminato. Vi rivedrò qui mercoledì.

(scritto tra novembre 2019 e febbraio 2020)

“-Quando torni?”

“-Dopodomani, ma tardi. Considerami disponibile da mercoledì. Per giovedì comunque ci sono. Tu chiama per confermare l’appuntamento, che senza finanziamento il documentario non lo facciamo”
“Tranquillo, comunque ti confermo appena so qualcosa”
Chiude questo dialogo, e poi ne intraprende un altro tutto sommato simile, ma più frivolo: c’è da decidere luogo e ora della partita di calcetto del sabato. Ha appena usato un paio di lingue europee, e quando è a casa per qualche motivo se ne vergogna quasi, poi risponde in italiano a sua madre che lo chiama per il pranzo. Il cibo è risaputo e delizioso, ma anche semplicemente troppo, e a fine pasto presagisce una cattiva digestione. Lo comunica a suo padre, quando mamma si allontana un attimo, perché non vuole che lei prenda le sue parole come una recensione negativa, non è proprio il caso, non sia mai, ma sente comunque il bisogno di dire a qualcuno, forse anche un po’ vanamente, visto l’interlocutore storicamente poco ricettivo, che non è più abituato a mangiare così tanto, e soprattutto a trovarsi il piatto pieno mentre lui scrive messaggi su Whatsapp o cazzeggia sfogliando la Gazzetta. Un po’ perché a casa la Gazzetta cartacea si trova solo in centro, dove passano i turisti, e un po’ perché, tranne le poche volte che ordina su Glovo, ma si tratta di una situazione imparagonabile, cucina per sé stesso quotidianamente, a volte anche per il coinquilino che fa i turni, ed è abituato a sentire la fame che si approfondisce e si acutizza mentre taglia le verdure o l’acqua comincia a borbottare, e ascolta un telegiornale o un documentario su Youtube. Teme che sia una gigantesca regressione, ma a casa, stavolta si intende a casa dei suoi, ci sta poco, e non gli dispiace oziare, è come una licenza al militare, per quello che può immaginare, lui per sua fortuna ha fatto il servizio civile. E sa anche che non è così per tutti, un paio di amici suoi, scesi dall’aereo fanno una vita tendenzialmente uguale a quella che si sono costruiti fuori, e addirittura cucinano loro per tutta la famiglia (cazzo, comunque è vero che in Italia si parla solo di cibo). Anche per loro, però, è vagamente sconcertante tornare nei luoghi dov’erano stati bambini o adolescenti, o anche, alla fine non è così strano, universitari. Anche dopo una decina di anni lontano, bastano quattro o cinque giorni di vita alla base e il tempo smette di progredire. Certo, è una vita disossata, provvisoria, una spudorata vacanza, la sveglia suona poco, la burocrazia resta sullo sfondo, è difficile paragonarla a prima… Ecco, prima aveva responsabilità commisurate all’età, era studente, e adesso lavora e paga le tasse, ma appunto, lo fa altrove, e quindi quando ritorna, due o tre volte all’anno, più due che tre, resta solo il contorno, e a casa è di nuovo, completamente figlio dei suoi genitori, concessione che accorda volentieri in quanto temporanea, e con data di scadenza sempre in bella mostra. Tutti ai propri posti con dieci anni, venti se ripensa all’adolescenza, distribuiti in modo apparentemente equo sul groppone di ognuno, anche se le leggi della vita bilogica suggeriscono un peso specifico più in gravoso per chi partiva già relativamente attempato. Adesso, i genitori suoi e dei suoi amici sono sparpagliati intorno alla soglia dell’età pensionabile, e chi l’ha oltrepassata osserva gli altri con sguardo perplesso. Per lui invece è solo aumentato il tempo di militanza nell’età adulta, e a differenza di altri coetanei, non sente di doverne fare un dramma.

Ad ogni modo, anche se sotto le feste, sono quasi tutti livellati nel gesto uniforme del ritorno, non è irrilevante specificare a cosa si torna. Carlo per esempio è di Torino: lui a Torino è capitato solo un paio di volte per dei concerti, ma Torino è grande, e tornare da fuori in una città grande che hai frequentato, vissuto e percorso in tutte le direzioni, è ragionevolmente assai diverso dalla sua esperienza: paesino da alcune migliaia di abitanti, collegato agli omologhi limitrofi da nastri di asfalto che si stendono tra due porzioni indistinguibili di campagna quieta e abbondantemente addomesticata dai pochi che ci sono rimasti a vivere. Le frazioni nascono e muoiono su quella lama d’asfalto nel volgere di poche centinaia di metri, mentre i paesi si concedono qualche abbozzo di quartiere, di suddivisione e ramificazione interna. I suoi stanno ancora lì, e quando il percorso tra l’aeroporto più vicino e i confini del comune si esaurisce – sono passati a prenderlo suo fratello o uno dei due amici d’infanzia che non si sono mai spostati–  ha quasi la sensazione che potrebbe essere fermato dai carabinieri davanti al cartello d’ingresso, rettangolare, bianco con poche lettere nere, per un controllo documenti, perché ormai, per la comunità, lui si è tramutato in uno straniero. In paese entra e esce gente comunque, e non solo tramite la morte e la nascita, ma lui tende a vedere, lo deve riconoscere, solo le persone che conosceva da prima mentre invecchiano, in apparenza la massima concessione che sono riuscite a strappare alla stagnazione che tutto avvolge. Ovviamente entrano in paese in modo anonimo, senza controlli né tantomeno fanfare, e lui ritorna vagamente turbato in quella specie di campo gravitazionale che è il paese. A un certo punto del suo sviluppo biologico, ma soprattutto emozionale, lo percepiva come un padre padrone abbastanza inclemente, sentimento che non riservava invece all’uomo che era effettivamente suo padre, persona mite e tollerante, disposta ad accordare una ragionevole libertà di scelta ai figli anche negli anni cruciali dell’adolescenza. No, aveva spiegato a volte a uno dei due vecchi amici, non se ne era andato perché gli stavano sul cazzo i genitori. Fosse stato per quello, sarebbe potuto rimanere in zona e cagarseli poco: il suo era un conto aperto con il territorio, e doveva allontanarsene. No, non avrebbe saputo identificare i confini esatti del “territorio”, ma mentalmente doveva ormai essersene allontanato tanto da arrivare infine a attraversare la frontiera statale, perché alla fine, anche abitare a un’ora di distanza da casa come peraltro aveva fatto, non era sufficiente per sentire quelle radici ingombranti tendersi e poi spezzarsi.
Entra, dunque, inscatolato in un auto, con l’idea di essere cambiato in modo decisivo e la disponibilità a imitare temporaneamente il suo passato, e si risente un po’ se vede che qualcos’altro è cambiato a sua volta, allontanandosi da come lo ricorda, come in una partita di Un Due Tre Stella che durasse per mesi e… no, scarta l’idea, in effetti quel gioco funziona esattamente al contrario. Anche la casa dei vecchi, che non è più sua da tanto, è moderatamente cambiata, ma a ogni ritorno si scopre meglio disposto ad accettarlo, dopo tutto riconosce ai suoi genitori lo status di persone vive, per quanto abitudinarie anche in gioventù, per quanto inflessibilmente a presidio di un bastione di provincialismo intransigente, perché in fin dei conti ci parla tutte le settimane con piacere genuino, e accetta che il ciclo di vita degli oggetti di casa si esaurisca, e che lo spazio sia periodicamente sottoposto a riorganizzazione. Va tutto bene. Ma allora perché esige dal paese quell’immobilità impossibile al solo scopo di confermare i suoi pregiudizi? A volte cerca di ragionare sulla questione, ma è intorpidito dall’imponenza dei processi digestivi, e distratto dalla vita sociale che ogni volta si riattiva senza soverchi sforzi da parte sua, non riesce a spingersi fino a una conclusione convincente. È lì per riposarsi, dopo tutto, e con una certa incoerenza, scopre che con ogni amico singolo, o gruppetto di amici, mantiene abitudini ripetitive, frequenta gli stessi posti, non solo perché intorno non c’è molto da fare, affermazione fondamentalmente falsa se si prende su la macchina, ma perché farlo gli dà un senso di sicurezza, di tepore, di cose ritrovate. C’è la scusa della liturgia, parola magniloquente, del fatto che i suoi ritorni non sono frequenti e che quindi possono mantenere una piacevole aura di abitudinarietà con la libertà di spacciarla per ciclicità, al sicuro dal rischio di rompersi le palle che lo flagellava quando era più giovane e lì ci viveva davvero. Alla fine poteva essere anche pigrizia, in fin dei conti faticava lui stesso a credere che fosse così restio a rinegoziare l’idea che aveva della terra natia da evitare deliberatamente l’inserimento di novità.    
Poi, inevitabilmente, nel ciclo continuo di magnate e rimpatriate, di frequente le due varianti si sovrappongono, anche i 10, o 12 o 15 giorni di una cosiddetta vacanza lunga si assottigliano fino a lasciar intravedere la partenza all’orizzonte, e riscopre una leggera inquietudine all’idea di andarsene. Ci ragiona sopra, digestione permettendo, e ricorda che il sentimento non è nuovo, che si ripresenta puntuale ogni volte che quell’insieme di circostanze si allinea, e tende a sbiadire velocemente dopo alcuni giorni, meglio se lavorativi. Dovrebbe esserci abituato, suggerisce quell’impulso in lui solo relativamente radicato che per consenso generale viene definito “buon senso”. Ma non è così, evidentemente, perchè a tre giorni dalla partenza l’inquietudine presenzia in pianta stabile mentre chiacchiera con questo o quella, mentre realizza che a questo giro non riuscirà a beccare qualcun altro, mentre ingolla meccanicamente uno sproposito di pasta pensando alle pratiche austere che instaurerà al ritorno, per un paio di settimane, propositi che però è incapace di anticipare. E soprattutto, l’avverte mentre si addormenta pensando con sgomento a un viaggio che ha rifatto uguale ormai una ventina di volte, e si rende conto di non aver provato nulla di simile quando per un paio di mesi ha percorso come un pezzente, un pezzente felice e col culo paratissimo, il sudest asiatico. Emerge anche quando chiacchiera su Whatsapp con qualcuno che lo aspetta al ritorno, e che comunque potrebbe rivedere anche solo tre settimane dopo l’atterraggio.
“-Sai? Mi prende un po’ male all’idea di tornare. Probabilmente è perché faccio fatica a spostarmi.”
“-Sì, guarda, prendere l’aereo è una rottura micidiale. A quando il teletrasporto pubblico?”
“-No, guarda, l’aereo non c’entra niente. È che se sono qui faccio fatica a pensare che sarò di nuovo là tra pochi giorni. Anzi, proprio, non riesco a immaginarlo.”
“-Aspetta, in che senso?”
È una domanda ragionevole. Come poi è ragionevole che lui stesso cambi discorso davanti alla difficoltà di argomentare ulteriormente. Forse il problema è che quando torna a casa, riparandosi dietro alla scusa del meritato riposo, accetta con troppa facilità, e infatti non ci ragiona sopra neanche un po’, di spogliarsi delle responsabilità, che trascina in lungo e in largo per la città lontana, col loro peso quasi letterale, come uno zaino da alpinismo. È un parallelismo da quattro soldi, un po’ gli dispiace, anche se crede che se ne farà una ragione, ma gli tornano in mente le forche caudine del metal detector, le vaschette piene di cazzi suoi, monete raccattate alla rinfusa, la cintura dei pantaloni, l’i-pod antidiluviano, che attraversano in pochi secondi il ventre buio della macchina senza mai un problema (come la morte, sembra che queste cose succedano solo agli altri). Rientrare a casa è una piccola resa, è portato a concludere. Ammette che non gli fa schifo sentirsi leggero per una manciata di giorni, e lo trova accettabile. Riconosce anche che la normalità della sua vita lontana può essere scomoda ma che sarebbe eccessivo definirla problematica, e che ciò nonostante spesso non si sente attrezzato per sopportarla, e dire che sarebbe esclusivamente tenuto a provvedere a se stesso. Forse è anche per quello che a volte decide unilateralmente di affrontare problemi logistici che sarebbero del coinquilino, e glieli risolve lasciandogli un piatto pieno nel microonde (spento). Certo, la gentilezza, certo, l’essere in qualche modo contingente, traballante, e soprattutto coatto, una famiglia, ma alla fine il nocciolo della questione è che quel piatto in più è una minuscola fuga in avanti che quando si trova al paese non è possibile attuare perché ufficialmente si sta riposando. Non che sia falso, ma quel tipo di riposo, ci ripensa e se ne convince, contiene in sé i semi di una capitolazione, che finora hanno fatto il piacere di non attecchire, ma che in circostanze più aspre purtroppo potrebbero comportarsi diversamente. C’è poco da fare, pensa, anche stavolta tocca scavalcare l’ostacolo, se necessario strisciando, riportando quello sfasamento a casa e trascinandoselo al seguito per tutti i giorni necessari, finché le cose  non si sistemano – di solito la stanchezza aiuta a ritrovare la prospettiva – e la sensazione si dilegua. Mi succede tutte le volte, pensa. Sarà un rito di passaggio periodico?, si chiede. Tende ad annuire, pensando al malessere che percepisco come a un adattamento, una transizione, ecco, così ha più senso. Il confine statale, conclude, non c’entra un tubo, lo sorvola da seduto, le gambe quasi accatastate in uno spazio minimo, ma il più delle volte dormicchiando. Eppure non tornerebbe in Italia, quindi superare il confine deve comunque possedere un qualche significato non meramente simbolico. Forse però si sta confondendo, si sta in certa misura ingannando, perché ormai sente come condizione imprescindibile della sua lontananza il fatto di essere fuori, ma ha appena negato che le frontiere importino qualcosa negli assestamenti del suo equilibrio psicologico. Oh, sai com’è, si riesce a far progredire la vita anche in presenza di nodi irrisolti, a volte. Gli piacerebbe poter prevedere, o anche poter censire, non sa decidersi, quante contraddizioni lo accompagneranno fino al letto di morte, dove finalmente spariranno, e solo perché in primo luogo sparirà lui, mica per altro. E ha comunque appurato che tutte le volte che lascia casa per tornare a casa si mette in moto questa faccenda, ha deciso di chiamarla “processo”, che fa male ma non nuoce. Forse perché ogni volta che si riabitua a casa, aspetta, quale delle due?, la vecchia, la prima, dove non abita più, percepisce che i suoi antichi limiti sono rimasti lì, e che potrebbero avvinghiarlo di nuovo se si lasciasse catturare. Quanto tempo potrebbe volerci? Non resta a casa mai più di due settimane. E anche ammettendo, tanto per avventurarsi in un paradosso, che tornasse a vivere in paese, magari lavorando in comune come auspicava la nonna, perché dovrebbe restare a casa dei suoi? O non cambierebbe un cazzo, una volta ridotte le distanze in modo così drastico? E non è un po’ stupido, o anche molto stupido, pensare che i limiti esistenziali e caratteriali di una persona siano radunati, immagazzinati, in un luogo fisico che invece è stipato di oggetti tangibili, magliette scoloritissime, libri scolastici maciullati, cassette probabilmente smagnetizzate, che testimoniano passivamente che il passato è stato così e cosà? In nessuno dei due casi c’è margine di trattativa, ma è veramente la stessa cosa? Trova a mano un’altra metafora ritrita per difendere il ragionamento davanti alla sua stessa perplessità: i serpenti, ecco, i serpenti, che per crescere devono disfarsi della pelle vecchia, e gli insetti… che fanno invece gli insetti? Quando pensa ai limiti, concetto vago ma incredibilmente doloroso,non intende ovviamente tutti i limiti, in questo i limiti sono assimilabili alle persone perché, è semplicissimo, alcune se ne vanno e altre restano, se non sempre comunque per parecchio tempo, e alcune, soprattutto, è bene che spariscano perché ci danneggiano. È una verità indiscutibile, anche se tutta la retorica spicciola che circola su internet, i meme motivazionali e le frasi da Baci Perugina sulle persone tossiche hanno rotto i coglioni già da un po’. Quindi, casa dei suoi, è piena di limiti, più limiti che mobilio. Forse sta qui il problema. Forse è per quello che al telefono è più facile parlare coi suoi vecchi, non si tratta di pigrizia, non è poca volontà di collaborare alla manutenzione degli afetti, ad esempio giocare a carte con loro dopo natale  gli piace davvero, e a volte vorrebbe che le distanze fossero più malleabili, ma non certo per farsi stirare le camicie. Mamma, papà, scusatemi, la casa dove finirete i vostri giorni e io ho iniziato i miei è piena di ostacoli. E forse ne sono pieni anche i paraggi, perché altrimenti non avrei bisogno di stare fuori. No, ancora niente, forse questo punto per il momento non può sperare di risolverlo.
O invece, sente improvvisamente di essere arrivato alla fine di un ragionamento, sospetta di desiderare che a casa, intesa come il luogo dove è cresciuto, tutto resti immutato per un motivo che in realtà è nitido, precisissimo. Solo in parte per pigrizia mentale, solo in parte per aderire con fermezza a vecchie convinzioni ormai degradate a stereotipi. E solo in parte pure per una galassia di motivi alternativi che richiederebbe anni di riflessione assidua e accurata e che forse adesso nemmeno sospetta né ha gli strumenti per concepire. No. Nulla deve cambiare soprattutto perché, adesso si sente abilitato a pensarlo e gli pare un’ammirevole verità che potrebbe resistere all’inclemenza del tempo e dei mutamenti senza troppo calcificarsi o usurarsi, perché l’idea di un cambiamento radicale nella vita del paese potrebbe smentire l’impulso originario che l’ha spinto ad allontanarsi una decina di anni prima. E no, non perché potrebbe dubitare della sua scelta, troppa acqua è passata sotto i ponti, e ha costruito troppo su quella prima intuizione per smontare tutto quanto in fretta e furia. Le inversioni a U, pensa, hanno bisogno di scenari disastrosi per acquisire impeto e credibilità nel balletto delle ipotesi. Non sapere dove sbattere la testa può aiutare allo scopo. No, non è questo. Il problema è che realizzare che la sua vita è cambiata per sempre a causa un’intuizione sbagliata lo sconvolgerebbe. Scoprire infine che le cose non erano allora così stagnanti e irrimediabili come le percepiva, che quel senso di dolore e quasi di soffocamento che lo attanagliava anche quando viveva a portata di regionale da casa dei suoi, erano almeno in parte una suggestione o il frutto di una ristrettazza di vedute. È disposto ad accettare che valutazioni errate portino a risultati positivi, l’eterogenesi dei fini non va sempre a finire male, il problema, forse lo riconosce, è che ha costruito gli anni successivi sul convincimento che la sua vita non potesse cambiare, e soprattutto crescere, se non andandosene. Forse ha solo bisogno, come praticamente tutti, di un mito fondativo al quale guardare con rispetto e riconoscenza, e anche se riesce a riconoscere i limiti razionali di questa esigenza, evidentemente c’è una parte più profonda, più viscerale, del suo essere che non vuole sentire ragioni. Bene. Esserne al corrente è un buon punto di partenza per non esasperare le cose inventandosi verità assolute. Ora come ora, non può spingersi oltre nell’inesausta analisi di se stesso. È bene che anche un cagadubbi abbia dei limiti, si concede. E non è poi così importante stabilire, invece, quali e quanti limiti siano rimasti a casa dei suoi o in paese, visto e considerato che non sono riusciti a inficiare la sua libertà di scelta neppure quando si trovavano all’apice della forza. Dovrebbe smettere di temerli, e attraversarli, se necessario, con maggiore frequenza, perché in mezzo a quei limiti reali o percepiti continuerà a vivere la sua famiglia. E dovrebbe evitare di zavorrarsi di pensiero e sovrastrutture come purtroppo riesce a fare solo quando deve ammassare le lavatrici, il lavoro, il pranzo e la cena, la vita e il sonno in un solo giorno, e deve farlo senza avere ponderato tutto per filo e per segno. Che meraviglia sarebbe riuscirci senza farsi schiacciare dall’insensato groviglio delle incombenze, trovando il tempo per sedersi e riflettere, così da ripetere le stesse azioni quotidiane con un barlume di consapevolezza in più. Non è una faccenda che finisca una volta per tutte, comunque. Non finché dura la vita, almeno, che dura  esattamente quanto le contraddizioni. Dovrebbe preparare le valigie, intanto.

(scritto tra dicembre 2019 e gennaio 2020)

Isolati

Per un vizio di classificazione alimentato da molti osservatori con abbondanti razioni di miopia, interesse o stupidità, tutti quegli spintoni in mezzo alla pubblica via erano stati catalogati come casi isolati. A metterli uno di fianco all’altro, tanti isolati –erano proliferati in libertà, diventando svariate centinaia- avrebbero formato un quartiere, e alcuni quartieri sono sufficienti per fare una piccola città, ma nello specifico la città non si era coagulata proprio per effetto di quelle valutazioni negative. Sarebbe stata altrimenti satura di sopraffazione, tutta piena di buche scavate nella pretestuosa ricerca di una spiegazione individuale, con tante grane piantate in ciascuna di quelle nuove cavità. E in ogni via, incluse le strade secondarie o periferiche, persone cadute, colte di sorpresa dallo slancio retorico di spinte e spintoni, episodicamente anche di bastoni, beninteso metaforici, tra altrettanto metaforiche ruote. Inoltre, a posteriori molti sarebbero poi scivolati nelle buche fresche a far compagnia alle grane, come se aver perso l’equilibrio non fosse stato già abbastanza. Ma, per quella scelta tassonomica condivisa dalla maggioranza, ogni isolato rimaneva tale e si valutavano separatamente la perdita di stabilità e lo sbilanciamento di ogni circostanza, mentre le spiegazioni a corredo si facevano labirintiche, proliferando su fatti semplici. I più, quindi, sorvolavano, beninteso sempre metaforicamente, ma i pochissimi che lo avevano fatto per davvero, usando spassionatamente i vantaggi del punto di vista aereo, avevano potuto scorgere lampanti affinità, perché in ogni singolo isolato c’erano inciampati e buche, senza ovviamente trascurare le grane. Chi si trovava ancora al livello del suolo invitava, un po’ tautologicamente, a rimanere con i piedi per terra, e poteva succedere che qualcuno che non era ancora riuscito a rialzarsi captasse questi inviti alla ragionevolezza e ne rimanesse sgradevolmente sorpreso, sentendosi incolpato della sua disgrazia. Così quella città potenzialmente fatta di paesaggi uniformi, di vicoli quasi indistinguibili, semplicemente non c’era, non ce n’era l’idea e nessuno riusciva a avvertire la lacuna. Chi si trovava bloccato in un isolato specifico, non potendo spostarsi, in parte per le conseguenze della caduta, ma soprattutto per la ristrettezza asfittica degli spazi, rimaneva dov’era e stentava a capire. A isolati raggruppati, sarebbe bastata una brevissima passeggiata per analizzare il paesaggio quasi unanime e cogliere non una ma varie antifone: e però, si è detto e ripetuto, le circostanze costringevano le valutazioni a rimanere difformi. Sarebbe bastato aggregarla, quella città, per capire che andava rasa al suolo. Ma mancava la lungimiranza, si faceva invece qualcos’altro un po’ a casaccio e quando il crepuscolo si addensava, lentissimo e tenace, ognuno, impegnato faticosamente a rialzarsi o ancora ben aderente all’asfalto sgarbato del suo scollegato frammento di città era portato a concludere liberamente che quell’oscurità incipiente fosse soltanto un problema suo.

(gennaio 2020)

E fino a quel momento, tutto più meno a posto: normale, scialbo, se vuoi, avevo più o meno intuito che mi sarebbe mancata la voglia di rivederlo, ma non che questo presentimento mi spingesse a uscire di corsa dal bar lasciandogli i caffè da pagare. Parlavamo del più e del meno, e in quelle circostanze, a volte, è già un risultato fantastico, no? Sorridevo, credo piuttosto normalmente, senza stare a farmi tremila pare su come lui avrebbe potuto eventualmente interpretare questa cosa. Ma forse anche io sto dando per scontato che in fondo gli piacessi. Sì, scusa, un po’ arrogante. Forse sorridevo anche con una punta di sarcasmo, perché a un certo punto ho pensato che si può chattare anche un mese tutti i giorni, poi basta un’oretta di faccia a faccia per capire che no, non è il caso. No, no, sempre correttissimo, e comunque no, non abbiamo chattato un mese, tipo una settimana, poi mi ha chiesto di uscire e, boh, forse a volte c’è pure la speranza di una sorpresa, di poter tornare a casa con un sorrisetto scemo stampato in faccia, e la scritta luminosa “non me l’aspettavo” che lampeggia in testa.
Fatto sta che dopo avere parlato di robe un po’ a caso, tipo il master che ha finito cinque anni fa o quella volta che ha partecipato alla maratona di Roma per una scommessa persa, mi tira fuori quella frase. Come gestire il tempo, come fare un po’ di tutto, “otto ore di lavoro, otto ore di svago, otto ore per dormire”.
Io allora gli dico: “È uno slogan del movimento operaio. Della seconda metà dell’ottocento. All’origine della festa del primo maggio.”. E lui: “Ah”.
Un attimo di silenzio, passa la tipica balla di fieno rotolante, e leggo nei suoi occhi un’ombra di stupore inspiegabile. Poi abbassa lo sguardo, mentre io penso “E questa che reazione sarebbe?”, e, per mettere le cose in chiaro, mi dice: “È comunque una frase valida, no?”. E forse, non so, gli è solo venuta male, ma tutto quello che diciamo può essere usato contro di noi, anche da prima che esistesse Facebook, e io quella frase come vuoi che l’abbia presa? Mi ha fatto scendere una catena… “Comunque”.
E a ogni parola che aggiungeva, si scavava la fossa, non davanti a me, che alla fine sai che gliene fregherà, Tinder è pieno di gente, ma proprio davanti alla Storia, scusa l’iperbole. Infatti ha aggiunto tipo: “comunque quel che conta è cercare la propria felicità”. E che si fottano gli altri, chiaramente, ma non mi è sembrato perfettamente consapevole delle implicazioni di questo principio. E la cosa peggiore è che pareva che gli dispiacesse sapere da dove veniva veramente quella frase, magari l’aveva letta su un libro di autoaiuto e credeva che fosse stata usata per la prima volta proprio sulla pagina in cui l’ha trovata, pronta per essere sottolineata con l’evidenziatore. No, non so se legge davvero quella robaccia, non gliel’ho chiesto, ma poi tornando verso casa ho pensato che forse anche io mi ero fatta dei gran viaggi, che abbiamo tutti dei pregiudizi che scattano come tagliole, ma no, non era una frase isolata, aveva aggiunto dettagli per convincermi che lo pensasse davvero, e ti assicuro che io stavo zitta, ha fatto tutto da solo…
Poi mi è pure venuto in mente che poco prima mi aveva detto che per arrivare in ufficio ci mette un’ora e rotti ad arrivare, al ritorno forse un po’ meno perché becca meno traffico. E quelle sono le otto ore che non sono né lavoro né riposo, quindi rimane un’unica opzione, e vabbè, dimmi te. No, non so se guidare lo rilassa, dici che in caso di risposta affermativa il mio discorso va in vacca? Ma scusa, tu che interesse hai a fare l’avvocato del diavolo così? Ah ah, si fa per parlare, dai, non te la prendere.
Comunque sì, è in quel momento che mi è venuta voglia di scappare, ma non potevo, perché era passata credo una mezz’oretta, e all’inizio, non mi ricordo le parole esatte, gli avevo detto una frase tipo che non avevo cose urgenti da fare quel giorno, il giorno dopo invece sì. E in fondo chi se ne frega, non avevo chissà quali apparenze da salvare, forse potevo alzarmi e buona notte, ma anche trattare la gente così di merda non va bene, anche se un po’ se lo meritano. No, cacchio, non perché credo al karma.
Poi però mi sa che se ne è accorto lo stesso, da come giravo il cucchiaino nella tazzina vuota, e dal fatto che stava parlando praticamente da solo, infatti ogni tanto mi chiedeva “Non sei d’accordo?”, “Non pensi anche tu?”, e io in effetti in quel momento non stavo pensando granché, potevo anche dirglielo “No, neanche io sto pensando”, ma era una risposta troppo stronza: mica potevo fare rappresaglia su di lui perché IO avevo sbagliato valutazione alla grande.
Sì, mi ha raccontato dell’altra roba a caso, che non mi ricordo com’è saltata fuori, che suo zio aveva fatto un programma in una radio locale a inizio anni ’80, questo era anche interessante, ma alla fine non era un grande oratore, no, infatti non mi ha nemmeno detto che musica metteva su, poi sì, anche una tirata su quella serie di Netflix che mi dicevi l’altro giorno che ti ha fatto schifo, e che anche Gianni e Francesca erano d’accordo: ecco, a lui, manco a farlo apposta, è piaciuta parecchio, e forse in quel momento ho sorriso di nuovo, perché mi è venuta in mente la faccia che avresti fatto al mio posto. Comunque sì, la cosa bella, tra virgolette, di questo tipo di situazioni, è che ogni tanto pensi che questa persona che magari non rivedrai ti ha fatto un’osservazione particolare, ti ha fatto vedere una prospettiva diversa, e forse questa cosa non basta per rivedersi, ma fa piacere, no? Ecco, lui magari ce l’ha fatta, anche se in un modo completamente sbagliato, non mi aspettavo quella risposta, ci sono rimasta male, ma in effetti è riuscito a mostrarmi un punto di vista diverso. E sì, hai ragione, è comunque riuscito a diventare una barzelletta… Un meme? da mostrare agli amici, e questo senza avere fatto nulla di plateale, su internet si trovano resoconti di appuntamenti Tinder che guarda… Ma forse gli americani non fanno testo, non lo so…
E poi comunque, pensaci: non è che forse abbiamo qualche problema di invidia noi? Credi davvero che l’incapacità di accontentarci che abbiamo sempre avuto sia qualcosa di positivo a prescindere? Ok, negli anni dell’università era una bandiera, come quella del sindacato studentesco, e le sventolavamo a giorni alterni. Nei momenti di scazzo penso che abbiamo fatto la nostra scimmiottatura di lotta più che altro per sentirci a posto con la coscienza, perché eravamo cresciuti con certi esempi, anche troppo mitizzati, e non potevamo mica stare con le mani in mano… Poi molti anni dopo arriva uno sconosciuto, che a diciotto o vent’anni non avrei potuto conoscere in quel modo lì, perché intanto sono cambiate varie cose, mi dice due frasi storte, due frasi vagamente qualunquiste, e mi scatta subito l’autodifesa, almeno mentalmente ho fatto subito le barricate e ci sono salita sopra.Alla fine ci fregano il tempo uguale, a me che a vent’anni facevo le occupazioni e che adesso vado a delle assemblee estemporanee e improvvisate quando magari non ho palestra, e a lui che si fa due ore di macchina al giorno e forse è pure contento così, e a vent’anni chissà che cazzo faceva. Tanto alla fine facciamo più o meno le stesse cose, le serie su Netflix, un po’ di esercizio per mantenerci in forma, ogni tanto un fine settimana da qualche parte con un volo Ryan… Gira e rigira siamo sempre lì. Solo che lui non capisce che gli stanno fregando il tempo… O non crede di capire chissà cosa come me, non so. Guarda poi che se stai zitto, io vado avanti un’altra mezz’ora, a tuo rischio e pericolo…
Eh sì, forse mi tocca vederla così, che alla fine il tempo sprecato di un appuntamento, tra un casino di virgolette, è uno dei pochi modi che abbiamo a disposizione per fare qualcosa che non sia finalizzato a qualcos’altro -no, nessun doppio senso- qualcosa che non debba essere per forza produttivo. Ho gettato un’oretta ai maiali, questa cosa non fa curriculum, figo! Ecco, il contrario di quello che mi dici che scrivono le tipe sui loro profili, che non sono mica lì a perdere il tempo. Poi sì, lo so anche io che in realtà vuol dire che non vogliono essere prese per il culo, quello neanche io, ovviamente.. Però sembra che stiano dicendo che il tempo è denaro, che il progetto di qua e il risultato di là, e forse non se ne rendono nemmeno conto. Ecco, scusa, ci risiamo da capo, non se ne esce.
Eh, forse è meglio se cominciamo a avviarci, ho quella consegna per dopodomani e forse riesco a lavorarci un paio d’ore dopo cena, anche se oggi non dovrei, perché non è ancora lunedì. Sì, e poi ho appena finito di lamentarmi di questa cosa. Ma mi sa che mi attacco al tram. Sì, sì, poi mi ha pure riscritto: educatissimo, su questo non possiamo dirgli niente, no, no, mi ha scritto ieri, il messaggio di prima era di Carla che mi chiedeva un consiglio su come tradurre uno scambio di battute da quel romanzo che sta facendo. E vabbè, cosa ho risposto? Al tipo, dici? Ci sto ancora pensando. Devo trovare le parole giuste per far cadere la conversazione con naturalezza. Indirizzarla. Un po’ ipocrita, ok, ma neanche il ghosting è una cosa della quale vantarsi in giro. Poi è più una roba da nativi digitali, no? O vogliamo proprio imitare i ventenni? Non facciamo finta di avere più tempo di quello che abbiamo. Ho gìa tipo quindici anni in meno da perdere di quelli al primo anno d’università. E ho solo otto ore  per lavorare, otto per dormire e otto per… Vabbè.

(scritto tra novembre e dicembre 2019)